Copio e incollo.

Indovinate chi è l’autore del commento a “25 ore” che mi limito a copiare per dargli il giusto rilievo. A lei dico solo “Grazie”.

…tutti all’inizio siamo degli estranei.
Io lo sono per te, tu lo sei per me.
Ma non per molto, nel tempo se lo si vuole si lascia un segno anche piccolo ma importante.
Lo stiamo facendo.
Tutti ne abbiamo/hanno bisogno.
Chiunque.
Chi sta male ha bisogno di ricevere e anche di dare.
Non so, già prima pensavo le cose in questo modo ma ora non posso fare a meno di vedere questa grande forza che si esprime libera solo se si è uniti, se si è insieme.

Spero che in parte sia rimasto dentro le persone con cui ho condiviso questo, anche in voi che leggete.
Sono molte le strade.
Non c’è un modo da cui si possa partire ad accorgersi degli altri, della vita, del miracolo della tua, del sentire che anche chi non c’è più vive in te, non ti lascia. Si è in due ora a vivere nello stesso corpo.
Quello che auguro a chi mi ha conosciuto o sta cominciando a farlo è che non si arrivi a tanto per scoprire quanto meravigliosi possano essere i giorni se condivisi.
Riprendendosi la propria vita per quanto sentiamo per intero, spaziamo lontano dai meccanismi feroci della frenesia che se ci pensate non può esistere se non glielo permettiamo.
Il tempo dell’amore per gli altri non è mai perduto.

Vivere ogni tanto nella “luccicanza” dentro le vene della vita, dimenticando qualsiasi rancore, rabbia, orgoglio: tutti sentimenti senza futuro… quanto grande è la forza che ti spazia dentro nell’attimo di quando insieme ci fermiamo e Guardiamo fuori con il respiro sgombro da ogni…siamo qui ora.

Nei corridoi e nelle stanze di quell’ospedale ho lasciato persone che neppure per un attimo avrebbero da pensare che quando sono con te si privano di qualcosa. Non c’è stata esitazione.
Non so se riuscite ad immaginarvi una situazione in cui tra tutti tu sei fra i pochi che torneranno a camminare e chi non può, o lo potrà fare dopo forse un anno… vive della tua gioia. Perchè? Perchè abbiamo condiviso le persone che siamo. Ti abbracciano felici per te. E ti dicono: torna presto a trovarci anche quando saremo a casa, ti aspettiamo.

Non è nella dimensione di vivere ogni giorno come fosse l’ultimo. Ma lasciarsi stupire da ciò che può avvenire, accogliere aperti già tutte le sfumature che possono esserci dietro e dentro ogni volto.

Scompaiono i segni lasciati dagli interventi, scompare il lento e rauco suono della voce di chi ha tenuto la tracheo per mesi ma senti ciò esprimono.
Non esistono, mentre parli con loro, le difficoltà che hanno a muoversi, o parlare, non ci sono sedie a rotelle. Non c’è sofferenza quando ci si guarda negli occhi o ci si stringe le braccia. C’è lotta, la gioia di (con)vivere.

Chi sono io? Chi sono gli altri? Neanche la paralisi riesce a schiacciare quello che è in noi. Mentre parli ti dimentichi di te e loro dimenticano il loro corpo se tu glielo permetti. Noi non siamo ciò che l’incidente ha fatto di noi. Noi siamo. Non ci sono segreti dietro i volti che non sorreggano altro che una piccola chiave, la semplicità.

Quello che più fa male è sentirsi dire “poverina” o sentirsi addosso tutt’acquosa complicazione di uno sguardo compassionevole… questo è fermarsi, tagliarsi fuori da quanto ci possiamo dare.
Entrambi. Chi è “malato” e chi no.
Forse…un sorriso, un contatto.
Chi è sulla sedia a rotelle spesso può dare di più perchè non ha i limiti che le persone si danno di solito.
…vorrei che lo sentiate anche voi tutte le volte che entrate in un ospedale.
Gli ospedali sono luoghi molto speciali.
Quello che è successo malattia o incidente è sempre presente o addirittura evidente ma ciò che ci si dimentica è chi c’è dentro la pelle delle persone a letto.
Per la guarigione o per la serenità della persona è importante far ri-vivere quella parte che meno si vede…
Un sorriso, un contatto…
Ho ancora fisso dentro di me tutto questo e terrò vivo quanto ho ricevuto da tutti. Grazie a quelli che mi hanno permesso di entrare a passi silenziosi nella loro vita e di riuscire a dare tantissimo.

Quello che è stato è che mi è hanno dato quanto di più forte, le persone che esternamente ora hanno meno possibilità di riprendere una vita, o una vita normale.
Sono stati Giorgio e Ines, rispettivamente il marito e la figlia di Cristina, la donna che è imprigionata in un corpo che non le risponde.
Lei c’è! lo potreste sentire con i vostri occhi se ve ne date il tempo…ore che non darei mai in cambio per nessuna ragione al mondo.
Cristina c’è… colei di cui avete letto da Simone delle fotografie:
“Prenditi tutto il tempo che vuoi, noi ti rivogliamo così”.
Non ne sanno i medici di quando Cristina improvvisamente da contratta che era se sente il tocco o la voce di sua figlia Ines riesce a rilassarsi e trovare pace in un corpo che la lega. Cristina c’è.
…sono stati Giorgio e Ines a entrare, sedersi accanto ai nostri letti e a darci coraggio e amore più di tutti quanti gli altri.
Io vi chiedo di trovare la risposta da voi al… Perchè?

Vi abbraccio,

         Back to the basic

 

Geek and proud to be

geek.JPG

1 – Appendiabiti

2 – Copy

3 – Antenna GPS Bluetooth

4 – Telepass

5 – Porta CD

6 – Pieropirro

7 – Palm Tungsten T3 con funzioni di navigatore GPS, lettore MP3, lettore DivX, dialer per i cellulari. Ovviamente estraibile.

8 – Ingresso AUX autoradio, in questo caso collegato al Palm

9 – Staffa portacellulare 1 con relativo caricabatteria

10 – Staffa portacellulare 2 con relativo caricabatteria

11- HUB USB 4 porte incassato a mano dal sottoscritto per la ricarica di auricolari, cellulari, antenna GPS, ecc.

12 – Multipresa 12V con Battery-tester e Ionizzatore inserito

Non ci sono le tazze, non si vedono i ganci portaborse e un altro paio di chicche, ma si dovrebbe capire quanto nerd sono.

25 ore

23.03 di venerdì. Parto. Un ticketless e due codici, un palmare con i dati di viaggio e diverse ore di telefilm, un litro d’acqua, fazzolettini, la mia borsa geek, due libri. Un cellulare che si scaricherà ben presto, nonostante alla partenza sembrasse carico.
Ad Arezzo uso i codici per stampare i biglietti che mi porteranno da Arezzo a  Verona, da lì a Brescia, da Brescia a Bergamo. Ho scelto l’Arezzo-Verona perchè dura sei ore, e magari riesco a dormire e ad arrivare non troppo presto a Bergamo.
Appena entro nello scompartimento assegnatomi, il pianista smette di suonare, l’oste di versare whisky, le sciantose si fermano con un piede sulla prima sedia disponibile. Vengo fissato e analizzato. Me ne frego, e mi siedo abbracciato allo zaino.

Tento inutilmente di dormire. Il caldo -tengon tutto serrato- e la puzza di piedi mi cacciano.
Mi siedo sullo strapuntino nel corridoio e finisco  Palahniuk. Dormicolo pure un po’, finchè una folle mi sale addosso per chiudere tutti i finestrini del corridoio dicendo “Fa freddo”. Io le rispondo “Nel caso, lì c’è il mio posto. Non chiuder tutto, che è a malapena fresco, chiuditi nello scompartimento”.  A Bologna si alza un ragazzo con la faccia da ingeNiere da uno scompartimento in cui tengono la luce accesa e porta e finestrino semiaperti. Prendo il suo posto, leggo una ventina di minuti giusto per pudore e dormo benino fino a Modena, dove sale un tizio che occupa il posto liberatosi accanto a me e quello accanto ancora, resta a piedi nudi a stropiccia la faccia contro un sedile. Io, che ho schifo a metterci il sedere e la nuca, rimango basito. Ma dormo lo stesso a sprazzi fino quasi a Verona.

Di lì a Bergamo, poca storia. A Bergamo vengo depistato tre volte da una fermata del bus all’altra, visto che gli autisti stessi non sanno dove stanno andando e non sono in grado di dare informazioni certe ai turisti. Temo che l’ospedale che sto cercando sia un ospedale militare, a questo punto.
Scendo a  Mozzo e inizio a inerpicarmi su per una collina, tra le ville. In una villa più grande delle altre, seduta su una panchina, mi aspetta sorridente attraverso la recinzione Ilaria. E’ quella la sorpresa di cui mi parlava via mail: il trovarla seduta invece che a letto.

Ilaria è la ragazza che ha avuto l’incidente assieme a Giacomo. Ha subìto la frattura di tre vertebre, e avrebbe dovuto tornare in piedi solo a ottobre. E invece.

Quando mi abbraccia, senza una parola, come fa lei, ho dei seri problemi. Ha un busto che le va dalle anche alla nuca e poi alla fronte, dove una fascia le da un’aria alla Bjorn Borg, e i capelli tirati su la fanno sembrare un ananas. Non so dove metter le mani, e quando poi le metto una mano alla vita quasi la sbilancio. “Ma quanto sei dimagrita?” E’ alta quanto me, e pesa nemmeno quarantacinque chili. “Eh, sono pure ingrassata, prima avevo la dieta frullata”.
Agguanta il deambulatore, e contenta e ancora incredula che ci sia davvero mi porta a fare un giro del centro di riabilitazione. La palestra, la fisioterapia. Il busto le tiene in linea il torso colla testa, quindi non si volta e non si china. Le cammino un passo avanti, così mi vede, anche.
Vedo macchine e cartelli che mi spezzano il cuore solo perchè esistono: “Vedi, quella serve a chi ancora non riesce a stare in piedi da solo”, dice lei indicandomi una specie di inginocchiatoio imbottito, con contrappesi e alloggiamenti per i piedi. Non so a cosa serva, e credo che mi farebbe male saperlo.

Andando verso la sua stanza saluta mille infermieri e mille pazienti, tutti per nome. “Vedi, lui è caduto dalla moto, cammina da una settimana e già se ne va”; “Lui ha la mia età e già è infermiere”; “Lui è un furbo: le braccia le muove meglio di me, ma quando c’è l’infermiera carina si lascia imboccare”.

Passiamo in una stanza dove una donna, dal letto, sembra guardare di sottecchi verso la porta. Le mani sono contratte, il volto triste, gli occhi semichiusi, la testa oscilla un po’ e le labbra sembrano recitare qualcosa come se lei stesse debolmente negando qualcosa, un dolore, un dispiacere. “Salve” faccio io. Ilaria invece entra, le prende la mano e basta, zitta, la guarda fissa. Non so, nemmeno un minuto, ma a me sembra un’eternità, quando capisco che la donna è lì ma non c’è. Ilaria si stacca, mi fa vedere un pannello di sughero dietro le mie spalle. Ci sono attaccate le foto di una bellissima donna al mare, nell’acqua fino al ginocchio in costume intero, la stessa che partecipa a una gara in bicicletta, e la scritta “prenditi il tempo che vuoi, ti rivogliamo così”. Ilaria mi dice solo “Sposata, una figlia di diciassette anni, una caduta in bicicletta”.

Un’altra stanza. Una donna coi pantaloncini, coi quali le calze antitrombosi sembrano costituire una specie di tutù. Lei parla a fatica, le hanno tolto da poco l’intubazione da tracheotomia. Caduta in casa, tre mesi di coma, ha ricominciato a parlare da poco.

E poi Ilaria mi racconta mille cose. Della carenza di invidie e rancori. Di come tutti facciano il tifo per tutti, lì dentro, dove quello che di peggio c’è è il vittimismo. Di come abbia imparato a essere contenta di come sta, anche nel dolore.

Le ore passano in fretta e lentamente assieme, come se fossi ubriaco. Sono più stanco in testa, nel cuore, che addosso. La sofferenza e i sorrisi assieme mi hanno prostrato più del viaggio.

Strappo a Ilaria la promessa che una delle sue prime trasferte sarà a Firenze, che lei dice mancarle tanto. La abbraccio -ho quasi imparato a farlo- e mentre mi allontano vedo che aspetta che sparisca senza muoversi dall’ingresso della clinica. Saluto con la mano.

Poi, beh, il McDonald col cesso più sporco del mondo e i commessi più gentili, il viaggio di ritorno dove, convinto di avere un’ora per un cambio, a Milano sono sceso dal treno per Bergamo e salito sul treno per Santa Maria Novella con un minuto di scarto, cazzeggiando nel frattempo per la stazione. I tre telefilm visti dal palmare sull’eurostar grazie alla mia borsa geek e alla presa sotto il tavolino del treno medesimo. Le tre quindici-sedicenni salite a Bologna, che, convinte che con le cuffie non sentissi, si sono fatte ingannare dalla mia faccia da poker e hanno raccontato cose da far arrossire un camallo. La skater in SMN che ha fatto il biglietto arrivando alla self-service e andandosene a rotelle, e ha dimostrato che si può essere aggraziati anche da emo -non si direbbe- e con la faccia devastata da non so quante caccole di metallo.

E alle 23.57, più sei minuti a piedi, a casa mia. Abluzioni e letto, fino a stamani a mezzogiorno. E poi di nuovo a letto nel pomeriggio, ancora stanco e devastato. Che non è il viaggio, è dove vai, che ti cambia, checchè ne dicano poeti e registi.

Il mattino ha l’oro in bocca reprise.

Stamani monto al lavoro alle 7.30.

Non sarebbe strano che io sembri uscito da una betoniera nel quale mi avessero fatto compagnia (oddio, spero che ho azzeccato il congiuntivo) due palle da bowling e sterco fresco di brontosauro, se ieri non fossi andato a letto qualcosa tipo alle diciotto.

No, che uno -uno a casa- va a ninna per il pomeriggio, colla sveglia puntata alle 21, col programma di cenare e cominciare a tradurre Middleman (scritto, Lu?), e si sveglia alle 22 dopo aver spento due cellulari e un palmare, solo perchè lo chiama Rick, colla semplice domanda “Ma non dovevi essere al Joyce?”.

S’era fissato da due settimane. Due. Settimane.

Non ne esco vivo, io, da questo periodo. Già che avevo incontrato un’amica, nel pomeriggio, per caso, e m’aveva chiesto “Ma te che fine hai fatto?”. Ho avuto seri problemi a trovare una spiegazione.

“Vo a casa e dormo, vo a casa e ripulisco, vo a casa e smazzetto uno dei mille libri che m’aspettano, vo a casa a tradurre, vo a casa e fisso il soffitto apatico”.

Tra l’altro.

Che “l’altro”, il lato attivo e positivo delle mie assenze, è purtroppo sproporzionatamente ridotto rispetto a quello del “Chi sono?, dove sono?, devo dormire di più”.

Ho bisogno di ferie.

E di porgere le mie scuse più profonde a Rick e alla Fia, che avrei davvero voluto rivedere. Mi sento il terzo ingrediente della mia betoniera.

Anche perchè poi non ho tradotto un accidente.

 

Solo gli imbecilli non cambiano mai idea…

“L’interruzione di procedure mediche dolorose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati ottenuti, può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o altrimenti da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”
(dal “Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica” si Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, 28 giugno 2005)
Va’, tre anni scarsi e una mitra, e hop!, di là dalla barricata.

Grazie a Nexus e Repubblica.

(Serve davvero che mi esprima anche io?)

Grazie, eh!

Ho tre SIM.

Una aziendale, TIM.
Una privata OMNITEL.
Una aziendale TIM, di nuovo, però ceduta a noi in cadeux ormai anni fa. Quest’ultima la usavo solo per ricevere, dato che aveva su una bella Autoricarica 190. Visto che le SIM non scadono più, c’avevo sopra 0,01 centesimi di credito e due-tre euro di bonus accumulato in anni.

Mi arriva un SMS, l’altro giorno. Autoricarica 190 cessa, cambiano le modalità.

“Quali sono?”, chiedo al prode 119 -si, povera gente-. Eh, adesso devi fare 15 euro di ricarica ogni 15 giorni, per mantenere attiva la tariffa e non perdere il bonus.
“Insomma, per aver cinque euro di bonus ne spendo quindici?” chiedo all’operatrice.
“Se la vuol metter così…”
“Accetto suggerimenti su come metterla, davvero”
“Le faccio un’autoricarica SOS?”.

Ecco, vai a saper te cosa pensava di risolvere.

E adesso?
Faccio il minimo di ricarica possibile per poter riprendere il credito residuo dei bonus e/o una promozione per gli sms gratis, cambio tariffa mediante uno dei medesimi, tengo in vita la SIM il minimo indispensabile e mi faccio chiamare solo sulla Omnitel. E saluto la TIM, che anche ‘sto giro ha toppato.

O magari la passo a 3 e vedo come funziona.

 

 

Suggerimenti?

Questo coglione con la Panda, ogni volta che parcheggio a casa dei miei, ogni volta parcheggia a una spanna da me. A pettine. Ergo, ogni volta io devo entrare dalla parte opposta. Quest’inverno avevo parcheggiato vicino all’auto dall’altro lato, in modo però che avessimo vicini gli sportelli del passeggero, e da entrare entrambi agevolmente.

Ecco, mi toccò entrare dal bagagliaio. Gli lasciai anche uno sputo di quelli che vengono da dentro i calzini congelato sul vetro, ma mi toccò fare acrobazie alle cinque di mattina.

Stavolta, visto che fa caldo e magari evaporava, ho risparmiato la saliva.

Mi oppongo fermamente a istoriargli sul cofano messaggi concisi (“stronzo”) visto che comunque non hanno scopo riabilitativo.

Le gomme dal lato educativo non c’è spazio per sgonfiargliele.

I bigliettini sotto il tergicristallo (“Idiota, la prossima volta lasciami un apriscatole, almeno” oppure “Non ti ricamo la fiancata che mi hai attaccato addosso solo perchè mi si stonda la chiave e magari la tua macchina acquista valore”) mi sembrano troppo blandi.

Via, cosa mi consigliate?

Specializzazioni

Un meccanico masochista di 36 anni, di Imperia…

Credo di non aver mai visto l’insegna di “meccanico masochista”, se no me ne ricorderei.

Evidentemente a Imperia ce ne sono. Sono quelli che per ricaricarti la batteria si attaccano la pinza ai capezzoli?

Oppure ti fanno pagare meno di quello che spendono loro in pezzi?

Ecco, se avessi visto l’insegna non solo me lo ricorderei, ma ci avrei fatto il tagliando alla Picanto. Mezz’ora per smontare la coppa dei fari e cambiare una lampadina, li facevo contenti.

Quasi spigolature e varie amenità.

Mettete, per favore, i soliti “secondo me” e “per quanto ne so, accetto però smentite” davanti a ogni frase.
Apprendo in questi giorni qualche cosuccia.

I Rasta, secondo la Cassazione possono possedere grandi quantitativi di Marijuana, che a loro serve per meditare e pregare. Ora, non credo che a me ne serva tanta tanta -non me ne serve proprio-, ma ho bisogno di soldi. Quasi quasi mi faccio crescere i capelli, riempio l’MP3 di reaggae, e comincio a fare il corriere. Se me la beccano addosso, vado giù di “Per l’amor di Bob!, sapeste come sono teso, se non me la medito tutta sto male”.

L’UE si oppone alla presa delle impronte digitali dei bimbi nei campi nomadi. A parte che, come giustamente ci fanno notare, nei campi nomadi ci sono soprattutto cittadini italiani, e quindi “discriminazione su base etnica” lo dici nelle Banlieu o nella Ruhr, gentile signora UE, le mie impronte digitali, assieme a quelle di ogni maschio maggiorenne fino al 2003 -mi pare- lo Stato Italiano ce le ha, quindi nel caso mi devo sentire discriminato io perchè a me le hanno prese e a loro no. E poi non capisco perchè un provvedimento di tutela dei minori -e della legalità- debba essere osteggiato solo perchè qualcuno ha detto “schedatura”. Gli uffici anagrafe hanno una scheda di ognuno di noi italiani regolari e magari, anche se non sempre, osservanti della legge. Che si fa, li diamo alle fiamme per tutelare lo stato brado di gente che manda i bambini a chiedere l’elemosina, li violenta -e poi però viene rimessa in libertà se viene beccato-, li costringe a rubare, taccheggiare, borseggiare, svaligiare? E non pigliamoci per il culo, che se adesso avete storto la bocca vuol dire che in centro a Firenze non ci siete mai stati.

E’ passato il lodo Schifani-Alfano. Non mi esprimo in via definitiva. Trovo giusto che l’immunità parlamentare prevista nella Costituzione -non Topolino, o lo statuto della P2-  sia estesa e applicata anche alle alte cariche dello Stato, purchè non diventi un’impunità, ma solo una sospensione volta a evitare manovre e manovrine giustizial-politiche. Trovo però sconcio che venga imposta nei termini attuali, più di contingenza che di correttezza. Aspetto che chi al momento ne gode-godrà esca da sotto questo ombrello e si presenti davanti ai giudici.

La Guzzanti grande -non la piccina, che è un genio di attrice nella fiction Boris, che raccomando a tutti- sulle basi di un articolo pubblicato su “El Clarin” -facilmente reperibile googlando “pompino guzzanti carfagna clarin”- che riporterebbe intercettazioni tra ministrE, accusa la Carfagna di aver fatto carriera per meriti di fellatio. A parte che la Carfagna ha riscontrato la solidarietà di tutte le parlamentari tutte per questa accusa, in piazza al No Cav Day la Guzzanti (si, quella che rideva e scherzava sul cancro della Fallaci, quella) cita l’articolo come letteralmente riportante cose che in Italia non verranno mai pubblicate. Verificate su Youtube, se riuscite a reggere i primi cinque minuti di fuffa pseudoartisticomica. Ecco, leggetelo un po’, st’articolo. Io non ci trovo trascrizioni, ma magari mi sbaglio. Sarà che in Italia non verranno mai pubblicate perchè non ci sono proprio, in giro -non dico che non esistano, ma che non sono in giro-? E per essere una paladina dell’informazione che predica contro , non è un po’ zozzo raccontare balle sensazionalistiche non supportate da prove, dire “c’è scritto tra parentesi pompino” quando in realtà non c’è scritto proprio niente? (Grazie a Gulliver a cui ho scippat… devo il link e un paio di riscontri alla mia opinione fino allora solo di stomaco)

Vita personale. Capo mi racconta di discussione in treno. Ragazza, collega, chiede a Capo e Amico:
“Ma di chi è l’edificio di via ******?”
“Perchè?”
“Perchè ho visto uno losco che ci entrava, faceva come se fosse suo, non vorrei fosse un abusivo che l’ha occupato”
“E a te che cazzo te ne frega?” L’ha poi offesa, dice il capo bullandosi del fatto che certo l’azienda proprietaria dello stabile non ci rimette certo se non le arriva un affitto, le ha dato della cretina dicendole che i problemi sono altri*.
Ho sbottato, nonostante che io in questa azienda, in questo ambiente, sotto quel Capo, ci debba restare per un bel pezzo.
“Certo che la vita ‘che cazzo te ne frega’ è parecchio più facile, eh?”
Non sono stato rioffeso, io, dal cavaliere de noantri, che a) gli rispondo per le rime b) lo denuncio per mobbing c) se gli metto le mani addosso gli serve un carrogru della Quadrifoglio per levargliele, però mi è stato chiesto “Ma ti vai a preoccupare di queste cose?”. Non faccio lezioni di educazione a uno che offende una ragazza perchè fa una domanda, è solo tempo sprecato, ma mi preoccupo seriamente del menefreghismo aggressivo che gira. Che tutti facciano quel che cazzo che gli pare, no? e poi lamentatevi se, che so, i punkabbestia vi pisciano sull’uscio, a me che cazzo me ne frega.

 

*E del benaltrismo-benoltrismo ne parliamo un’altra volta, che per adesso ho spurgato 🙂

A ciascuno il suo sport.

Uff. Che poi dite che scrivo solo cose in cui faccio un’ottima figura.

Una decina d’anni fa, appena assunto, mi ritrovai con qualche mattina libera, visto che c’era un turno pomeridiano che iniziava alle 15.

Decisi, imprudentemente, di metterle a frutto con dell’attività sportiva: avrei imparato a pattinare a rotelle.
Comprai dei rollerblade, le necessarissime protezioni, e mi gettai una bella mattina su per il viale delle Cascine.

Dovete sapere che non era stato riasfaltato bene bene, ancora, e che in realtà era un suolo lunare pieno di crateri e breccino, ma tant’era, non contavo di prendere grandi velocità… e così feci. Non ne presi proprio.

Arrancavo, praticamente camminando, più lento che a piedi nudi, frenato dallo sforzo di stare in piedi e dalle ruote che si stavano via via squadrando, ma non mi disperavo, e proseguivo col mio “GRAAAAAAK…. GRAAAAAAK… GRAAAAAAK….”

Mi sorpassarono tre ragazzi in palese forca. Ero pronto a occhiatacce e sfottò, quindi quando, sorpassandomi a passo di crociera, uno dei tre mi guardò di traverso; sorrisi, e produssi la battuta di scusa che mi ero quasi preparato:

“Eh, da qualche parte bisogna pure cominciare!”Alla tua età?” Ecco, non so come renderla meglio, colla punteggiatura: non avevo finito di parlare io che mi aveva già chetato lui.

Incassai, tacqui, andai avanti.

“GRAAAAAAK…. GRAAAAAAK… GRAAAAAAK….”, sudavo come un maiale nero a luglio, ma DOVEVO farcela.

Venne il turno per sorpassarmi di mamma con bimbo in passeggino e tre-quattrenne al seguito. Giuro. Io “GRAAAAAAK…. GRAAAAAAK… GRAAAAAAK….” e loro mi sorpassano da destra, il bambino appiedato che mi guarda di sotto in su curioso e serio.

Sono stato pure grato alla madre quando ha detto “Via, non dar noia al tato…”
Un po’ meno quando, dopo una brevissima pausa, ha concluso “… non t’abbia a cascare addosso”

Ecco, capo basso, sono arrivato alla panchina più vicina e ho rimesso i pattini nello zaino.

Più tardi –mesi più tardi- ho pure imparato a filare, a girare, anche se non a piroettare -checchè una volta M abbia scambiato una mezza caduta piuttosto elaborata per una piroetta- abbastanza dignitosamente.

Però c’è voluta tutta la mia stizza, qualche caduta e un notevole sprezzo del ridicolo.

E adesso perculatemi pure, con storie di seienni campioni di tango figurato su pattini.

 

I dialoghi della fava

In piscina, sdraiato, mi arrivano le voci dei vicini di sdraio.

“E’ c’ho quarantase’anni, non ho mai lavorato un giorno in vita mia, mica devo cominciare ora!”

“Eh, oh.”

“che poi non ho mia trovato nulla che m’appassionasse, se no mi sarei impegnato, applicato”

“Devi omologarti, banalizzarti”

“Che poi io e’ sono, banale. Chiedimi come voglio il caffè: normale, banale. Mica col latte, lo iogurt, la merda”

“Che poi alla fine non importa più il caffè, ma il resto”

“Eh, come colle donne. Lucia, Sandra, Valentina… a me ‘un mi garba loro, ma l’eterno femminino che ‘un cambia mai”

“Insomma, ti stanchi della Lucia, mica della topa”

Ecco. Vorrei essere uno scrittore tanto bravo da averlo inventato.

Brutta bestia, l’invidia

Ecco, lo sapevo.

Prima o poi capita a tutte le persone serene.

Arriva un disturbato che, in privato, mi infama, mi da del mediocre.

Costruisce una sua tesi su qualcuno dei commenti che c’è ±ui, su qualche link.

Povero, povero.

Non per la tesi, quanto per il bipolarismo. In un messaggio mi invidia. In quello dopo mi da del mediocre.

Mi dispiace per lui, che di certo ha sofferto grosse perdite.

Però¬ £avolo, non vedo perchè ¤ebba scontarne io gli scotti.

Adesso, dopo un bel pezzo, io sono a posto.

E’ normale essere invidiati quando si sta bene (beh, io l’invidia non l’ho mai provata per chi aveva qualcosa di buono, se se l’era meritato, e stavolta credo che il merito ci sia). Doveva capitare.

E adesso, visto che mi spia, sa che d’ora in poi lo ignorerò¬ ©gnorerò ¬¥ sue offese e mi limiterò ¡ tentennare il capo in silenzio, che l’invidia è ¬a forma pi?cera di ammirazione.

Sono solo fortunato, ma lui mi ammira. Ebeh.