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TOEI

C’è una casa cinematografica giapponese, la Toei, che come videologo ha un’onda che si infrange su uno scoglio.
Io me la ricordo dai film di kaiju che vedevo in replica da bambino, quindi quell’onda è lí da almeno cinquant’anni.
Trovo meraviglioso, nel senso più estatico del termine, che un evento, unico e irripetibile anche se simile a infiniti altri della sua specie, sia stato immortalato, reso eterno.
Quell’onda non si ripeterà mai più. Eppure, grazie a un artista che l’ha ripresa, la sua memoria torna da cinquant’anni, in innumerevoli copie.
Da cinquant’anni guardiamo un secondo di una spiaggia chissà dove dall’altra parte del mondo.
Una cosa effimera e minuscola che diviene eterna perché un artista, qualcuno che l’ha apprezzata, ce l’ha fatta conoscere.

Forse è questo il senso della vita, non solo dell’arte.

Dell’attentismo – tre

– L’unica serenità è quella condivisa.

Non esiste vera soddisfazione che possa o debba rimanere privata. È per questo che ci vantiamo, confidiamo e congratuliamo. Ogni gioia raddoppia come davanti a uno specchio se la dividiamo e ne facciamo partecipi gli altri. Diamo il nostro meglio, quindi. Sorridiamo, miglioriamo le giornate altrui con questo piccolo dono, e ci stupiremo di quanto spesso verrà ricambiato.
Condividiamo i bei libri, andiamo al cinema cogli amici, suggeriamo il ristorante o le ricette preferite acciocchè gli altri abbiano a goderne.
Ringraziamo il commesso o il cuoco di un lavoro ben fatto, della cortesia dimostrata. Una buona parola, un complimento detti con sincerità, sono migliori, più incisivi e costruttivi di una mancia. Un “ti voglio bene”, un “sei il collega ideale” o un “sono fiero di essere tuo amico” valgono di più di mille regali fatti per dovere. L’ammettere un affetto non ci indebolisce, anzi, dimostra che non temiamo noi stessi e quello che proviamo.

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Dell’attentismo – due

– La serenità si costruisce

Si costruisce attivamente attraverso piccoli accorgimenti.
Dobbiamo smettere di dirci quanto stiamo male, è assieme troppo facile e controproducente. Se ci diciamo ogni giorno che il nostro lavoro non ci piace, che il traffico è letale, che nessuno ci vuole bene, alla lunga diventerà vero. Le cose diventano vere se ci crediamo abbastanza intensamente e abbastanza a lungo.
Troviamo le cose che ci piacciono e usiamole come premio verso noi stessi a fine di un lavoro noioso o difficile. Troviamo la parte di noi stessi che ci piace di più e valorizziamola. Facciamo tesoro di ogni complimento per i lavori ben riusciti, che ognuno di noi è campione in qualcosa.
Diamoci piccoli piaceri ogni giorno, che siano i dolcetti alla fine del pasto che lo riempiono di aspettative e lo rendono TUTTO più buono.
Troviamo il modo di riempire e rendere utili le nostre attese. Il libro giusto trasforma due noiosissime ore di coda, sprecate, in tempo per noi, tempo che ci costruisce e diverte.
Diciamoci tutte le mattine ‘oggi sarà bello perché…’ oppure ‘oggi sarà divertente perché…”.
Soprattutto, crediamoci. Spostiamoci piano piano dalla spirale del malcontento a quella della soddisfazione.

Dell’attentismo – uno

– La serenità c’è.
Va solo trovata.

Guardatevi intorno. Godetevi il sole che vi batte in faccia e il caldo che vi rilassa, il vento che vi rinfresca, anche la pioggia che vi stimola e il freddo che corrobora.
Imparate ad apprezzare i lati buffi della vita, ridete appena potete. Cogliete il lato ridicolo della situazione, che c’è sempre. Guardate ogni problema da fuori, guadagnate prospettiva, e se non potete risolvere fate tesoro della lezione. Ogni avversità ci forma e fa crescere, ci fortifica e insegna ad apprezzare la sua mancanza, quello che abbiamo.

Impariamo, apprezziamo. E per farlo bisogna osservare cosa abbiamo, e capire cosa ci piace.

“Non è l’autore, nè il luogo in cui viene espressa, che fanno la dignità di una affermazione”

(prof. C. Florenzano, I.T.I.S. A. Meucci, circa 1990)

Quanta ragione, professore, quanta ragione.
Questa sera (per un altro quarto d’ora almeno è “questa sera”), tra una pinta di sidro e una chiacchiera con una amica improvvisamente, inaspettatamente e fugacemente giunta dal bergamasco, mi son dovuto recare in bagno.
Alle mie spalle, mentre shakeravo via gli ultimi distillati, è giunto il Geometra, diretto per fortuna verso l’orinale accanto.
Il Geometra è un ragazzo dall’età collocabile in maniera sicura solo tra i venticinque e i quarantacinque anni, lungo lungo e secco secco, sempre con un paio di pantaloni di pelle e una t-shirt scura, che, probabilmente non è mai tornato da qualche “viaggio” di piacere.
Deve il soprannome di Geometra -quantomeno tra me e il mi’fratello- al fatto che spesso ci entrava nel bar a passi resi ancora più lunghi dalle gambe da trampoliere, talvolta sacramentando, talvolta discutendo tra sè e sè, spesso contando i passi come se stesse effettuando un rilievo catastale. Lui ci ha dato la prova che sono i fatti quelli che contano, noi, per riferirci a lui, gli si mise questo soprannome.
Insomma, mentre arriva, mi guarda e mi fa, oppure “fa” e basta, senza per forza rivolgersi a me che comunque ero l’unico presente:

“Eh, il mondo è strano”.

Dieci minuti prima stavo pensando a chiudermi in casa per una settimana, sovraccarico di input emotivi come mi sento da tre o quattro giorni, e da quella frase ho capito che, beh, se la saggezza, per quanto spicciola e fatalista, si trova pure nel “Gents” del Joyce, è bene che veda più gente possibile.

Eh, già. Il mondo è proprio strano.