Lo so, non è una preview, non è proprio una novità , se non per me, ma è una cosa che volevo condividere.
Riparlando di IT a distanza di secoli dall’ultima lettura (la prima è stata un tour de force il giorno dopo l’uscita italiana, tre giorni nei quali presi la forma della poltrona su cui mi ero spezzettato), mi sono accorto di una cosa: il romanzo parla, sì, di lotta, di crescita oltre i propri limiti, ma c’è quasi altrettanta rassegnazione. Chissà , forse sono realizzazioni che necessitano di un certo percorso, oppure semplicemente, come dicono gli americhi, “non solo la lampadina più affilata del mazzo”.
Rassegnazione, dicevo.
“IT non è solo un romanzo di paura”, lo sappiamo tutti. Per discutere di quanto sia leggibile sotto diversi piani metaforici, sono partito dall’episodio in cui una vittima di IT smette di aver paura quando ha la certezza di stare per morire. La paura è figlia del dubbio, quindi l’assoluta certezza della morte imminente tranquillizza la vittima. Lo so, è una delle scene meno plausibili e più belle del romanzo, perchè è una metafora di tante cose, che parte secondo me dalle vittime di abusi ripetuti ai soldati in trincea, a chi attraversa il deserto a piedi.
Ecco, questa è rassegnazione, lo zen del non avere alternative o scelte che rende sostenibile una situazione terribile.
Altra frase che ricordo quasi a memoria, un amore infelice: il terzo incomodo che mentalmente si rivolge a lei dicendo “prenditi lui, prenditi tutto ciò che vuoi, lascia che io continui ad amarti e forse mi basterà ”. Anche questa è rassegnazione, è la presa di coscienza di come stanno le cose, sull’incapacità di chicchessia di dominare i sentimenti propri e altrui. È una cosa molto adulta da far pensare e realizzare a un ragazzino, ma tant’è, ma anche qui è una stilettata di ghiaccio al cuore. Chi di noi non c’è passato e non avrebbe voluto avere la stessa maturità nell’affrontare il dolore di non esistere davanti a un amore che avrebbe voluto per sè?
Poi beh, tutto il finale, con le memorie che svaniscono, l’inchiostro che sbiadisce, metafora anche questa di mortalità , di un sic transit gloria mundi anche per le imprese più epiche, delle nostre vicende che da ragazzini sono pietre miliari, aneddoti che siamo certi racconteremo ai nipotini, che ci riempiono d’emozione e d’orgoglio, e che invece pochi anni dopo già non ricordiamo più noi, figurarsi cosa di noi ricorderanno i nostri cari mezz’ora dopo la nostra scomparsa.
Eppure anche qui ci si rassegna, perchè le cose vanno così, sarebbe inutile ostinarsi a copiare e ricopiare diari di eventi dimenticati, come sarebbe inutile telefonare al nostro amico delle medie che non sentiamo da allora (“Cicali chi? Abbi pazienza, non mi ricordo) per rammentare qualla volta che con la BMX abbiamo saltato quel maledetto fosso senza farci male.
Inutile, rassegnamoci, sono cose minuscole, che non contano.
Siamo cose minuscole, che non contano, anche se abbiamo sconfitto un orrore cosmico.
Non solo non avremo più amici come quelli che avevamo a dodici anni, ma non saremo neppure mai altrettanto importanti.
Rassegnamoci.
E ringraziamo King per avercelo fatto capire, anche se, come nel mio caso, dopo una meditazione quasi quarantennale.
(nel caso, commentate qui: IT – “e te ne sei accorto adesso?” )