Category Archives: Feelings

IT – “e te ne sei accorto adesso?”

Lo so, non è una preview, non è proprio una novità, se non per me, ma è una cosa che volevo condividere.

Riparlando di IT a distanza di secoli dall’ultima lettura (la prima è stata un tour de force il giorno dopo l’uscita italiana, tre giorni nei quali presi la forma della poltrona su cui mi ero spezzettato), mi sono accorto di una cosa: il romanzo parla, sì, di lotta, di crescita oltre i propri limiti, ma c’è quasi altrettanta rassegnazione. Chissà, forse sono realizzazioni che necessitano di un certo percorso, oppure semplicemente, come dicono gli americhi, “non solo la lampadina più affilata del mazzo”.

Rassegnazione, dicevo.
“IT non è solo un romanzo di paura”, lo sappiamo tutti. Per discutere di quanto sia leggibile sotto diversi piani metaforici, sono partito dall’episodio in cui una vittima di IT smette di aver paura quando ha la certezza di stare per morire. La paura è figlia del dubbio, quindi l’assoluta certezza della morte imminente tranquillizza la vittima. Lo so, è una delle scene meno plausibili e più belle del romanzo, perchè è una metafora di tante cose, che parte secondo me dalle vittime di abusi ripetuti ai soldati in trincea, a chi attraversa il deserto a piedi.
Ecco, questa è rassegnazione, lo zen del non avere alternative o scelte che rende sostenibile una situazione terribile.
Altra frase che ricordo quasi a memoria, un amore infelice: il terzo incomodo che mentalmente si rivolge a lei dicendo “prenditi lui, prenditi tutto ciò che vuoi, lascia che io continui ad amarti e forse mi basterà”. Anche questa è rassegnazione, è la presa di coscienza di come stanno le cose, sull’incapacità di chicchessia di dominare i sentimenti propri e altrui. È una cosa molto adulta da far pensare e realizzare a un ragazzino, ma tant’è, ma anche qui è una stilettata di ghiaccio al cuore. Chi di noi non c’è passato e non avrebbe voluto avere la stessa maturità nell’affrontare il dolore di non esistere davanti a un amore che avrebbe voluto per sè?
Poi beh, tutto il finale, con le memorie che svaniscono, l’inchiostro che sbiadisce, metafora anche questa di mortalità, di un sic transit gloria mundi anche per le imprese più epiche, delle nostre vicende che da ragazzini sono pietre miliari, aneddoti che siamo certi racconteremo ai nipotini, che ci riempiono d’emozione e d’orgoglio, e che invece pochi anni dopo già non ricordiamo più noi, figurarsi cosa di noi ricorderanno i nostri cari mezz’ora dopo la nostra scomparsa.
Eppure anche qui ci si rassegna, perchè le cose vanno così, sarebbe inutile ostinarsi a copiare e ricopiare diari di eventi dimenticati, come sarebbe inutile telefonare al nostro amico delle medie che non sentiamo da allora (“Cicali chi? Abbi pazienza, non mi ricordo) per rammentare qualla volta che con la BMX abbiamo saltato quel maledetto fosso senza farci male.
Inutile, rassegnamoci, sono cose minuscole, che non contano.
Siamo cose minuscole, che non contano, anche se abbiamo sconfitto un orrore cosmico.
Non solo non avremo più amici come quelli che avevamo a dodici anni, ma non saremo neppure mai altrettanto importanti.
Rassegnamoci.
E ringraziamo King per avercelo fatto capire, anche se, come nel mio caso, dopo una meditazione quasi quarantennale.


(nel caso, commentate qui: IT – “e te ne sei accorto adesso?” )

TOEI

C’è una casa cinematografica giapponese, la Toei, che come videologo ha un’onda che si infrange su uno scoglio.
Io me la ricordo dai film di kaiju che vedevo in replica da bambino, quindi quell’onda è lí da almeno cinquant’anni.
Trovo meraviglioso, nel senso più estatico del termine, che un evento, unico e irripetibile anche se simile a infiniti altri della sua specie, sia stato immortalato, reso eterno.
Quell’onda non si ripeterà mai più. Eppure, grazie a un artista che l’ha ripresa, la sua memoria torna da cinquant’anni, in innumerevoli copie.
Da cinquant’anni guardiamo un secondo di una spiaggia chissà dove dall’altra parte del mondo.
Una cosa effimera e minuscola che diviene eterna perché un artista, qualcuno che l’ha apprezzata, ce l’ha fatta conoscere.

Forse è questo il senso della vita, non solo dell’arte.

Chi mi conosce lo sa…

…non son più carabiniere.
Okay, scherzi a parte. Chi mi conosce sa che sono un insicuro. Sindrome dell’impostore, si chiama.
Potete dirmi che sono bravo tutte le volte che vi pare, avrò problemi a crederci.
Semplicemente, non sono stato cresciuto così, ma è un discorso che ho già affrontato mille volte, nella speranza di banalizzarlo e renderlo meno vero.
Scusate.

Per due due anni, da Inaspettatamente, mi sono arrivate lodi e giudizi positivi, belle recensioni, menzioni anche di un certo livello. “Okay,” dicevo io “se mi faceva schifo non pubblicavo, può darsi che piaccia anche a qualcun altro”.
Lo vedete, l’impostore che resiste, arroccato nel suo castello, convinto di essere nel giusto?

Però ad aprile sono arrivati diversi, chiamiamoli così, cazzotti in bocca alla mia sindrome.
A fine marzo ho vinto il premio che vedete qui sotto, e questo mi ha portato qualche vendita in più, ma soprattutto delle conferme.
Lettori forti e competenti si sono accorti che esisto;
mi hanno citato e intervistato degli youtuber che stimo assai, mi hanno contattato sui social dei bravi scrittori che mi hanno voluto far leggere le loro opere, degli editor di ottimo livello che hanno commentato i miei scritti in corso di lettura o quasi.
Mi hanno paragonato a Chiang. Io non. A Chiang!

Sono conferme. Non lo realizzo appieno, ancora, ma “visto da fuori”, se succedesse a un altro, lo direi: ci sono in giro persone che mi ritengono uno scrittore valido. Persone informate, pratiche, del mestiere, non solo mia moglie e i miei migliori amici, per i quali potrebbe essere solo una questione di non offendere i miei sentimenti.

Mi sono arrivati complimenti come questo giudizio.

Vabbè, è un amico, ma facciamo a capirci:


Il buon Borgogni, mio mentore dell’Indie e dello weird, ha citato i miei idoli e mi ha paragonato al mio scrittore preferito. Non ricordo se sapesse chi fosse, ma se ha sparato alla cieca ha colpito nel segno.
Se lo sapeva, beh, non toglie niente all’enorme complimento.
A distanza di poche ore, a seguito di una bella discussione, vedo questa storia:

Ottavia ha creato una playlist su Spotify ispirata al mio Probabilmente.
Come ho detto più volte anche su queste pagine, per me l’ispirare un pensiero o un ragionamento con le mie opere, lo spingere alla riflessione o, come in questo caso, a una creazione successiva, è quanto di più simile all’immortalità che si possa ottenere.
È lo step successivo, per me. Non ero pronto ad avere chi mi apprezza, figurarsi se ero pronto ad avere una specie di fanart. Grazie, Ottavia, per avermi spiazzato, e di averlo fatto in maniera quasi chirurgica.

Scrivo, come tutti -credo- quelli che scrivono, dipingono, compongono, scolpiscono, per lasciare una parte di me dentro gli altri, per passare il seme di una sensazione o di una convinzione a chiunque abbia voglia di accoglierlo.

Ho avuto un mese e mezzo di conferme.
Chi mi ha letto e mi ha commentato ha dimostrato che non ho fatto tutto per niente.
Chi mi ha consigliato a un amico, a un conoscente, a dei lettori, mi ha dimostrato che questa cosa l’ho fatta nel migliore dei modi a me possibile, un modo che è piaciuto anche ad altri.
Chi ha scritto o creato qualcosa ispirato anche in maniera subliminale da uno dei miei racconti, fosse anche per dire “io questo spunto l’avrei utilizzato meglio”, ha preso quel seme e l’ha messo a frutto in un modo che mi rende orgoglioso, onorato e felice.

Ho conosciuto o conosciuto meglio, anche se solo virtualmente, persone interessantissime, competenti e brave, con le quali ho parlato di creatività, di scrittura, di quello che vorremmo “far passare”.
Come sempre, sono nel ruolo che adoro, quello del più cretino della stanza, quello che impara da tutti e dà troppo poco in cambio.

Però stavolta inizio a pensare di essere un idiot savant, uno che anche senza volere alla fine qualcosa di buono l’ha combinata.

Sto cominciando a crederci, ecco.

Grazie.


3×13

No, non è una puntata di BTVS, TBBT o di Fringe.

E’ che tre per tredici, due numeri primi -oh, è l’unica corrispondenza che riesco a trovare- è la mia età da oggi alle 15 grossomodo.

E quest’anno quali mete ho raggiunto? Boh, nulla da sventolare, a parte un anno con la Figlioluccia senza strepiti, lacrime, o attriti. E non mi pare poco.

Con gli amici ci stiamo allontanando come pezzi della Pangea infranta, lentamente ma costantemente -ed è così che funziona, dicono, diventare vecchi e maturi- ; il lavoro “l’è quel che l’è”, grazie anche a chi ce lo dovrebbe facilitare; ho dimostrato che se voglio posso perdere 10kg in quaranta giorni, e riprenderne tre in due giorni di torte con candeline; il mio wannabe romanzo piange in un angolo della mia testa, trascurato ma non dimenticato, perchè pensa che non gli voglia più bene, e invece sono solo un padre che torna tardi dal lavoro, e pure stanco.

Insomma, calma piatta, ma non bonaccia. E allora alla via così, verso la boa dell’anno prossimo.

Tests

Ho sentito in un Moebius -trasmissione di Radio24- di un esperimento sulla solitudine riportato in un saggio di tal Cacioppo.

Han preso diverse persone e han detto loro “Dobbiam fare un esperimento, e vi dovete dividere in squadre. Però le squadre non le facciamo noi, le farete voi sulla base delle simpatie. Frequentatevi, conoscetevi, che poi vi chiederemo.”
Dopo qualche tempo hanno convocato un soggetto alla volta e gli han fatto compilare un modulo nel quale doveva indicare chi gli era rimasto simpatico e con chi voleva dunque andare in squadra.

Alla convocazione successiva, sempre individuale, alla metà dei soggetti veniva detto “Beh, non sei simpatico a nessuno, nessuno ti ha segnalato, ma vabbè, fallo da solo, questo esperimento” e veniva posto davanti un vassoio con diversi biscotti al cioccolato con la richiesta di esprimere un giudizio sulla bontà di quest’ultimi.
All’altra metà dei soggetti veniva detto “Cavolo, sei simpatico a tutti, ma non possiamo fare squadre troppo grandi… ti chiediamo quindi di fare l’esperimento da solo” e veniva quindi posto lo stesso vassoio e la stessa richiesta.

Risultato?
A quelli convinti di essere antipatici occorrevano una media di nove biscotti al cioccolato, per decidere se eran buoni o no. A quelli convinti di esser simpatici non ne son serviti più di quattro.
Se ne è dedotto che la sensazione della solitudine insorge immediatamente, e che la gratificazione del mangiare di più, e soprattutto dolci, è un meccanismo conseguente.

E’ un cane che si morde la coda: ti senti inadeguato, mangi, ingrassi, ti incattivisci, ti senti ancora più inadeguato, mangi ancor di più…

Adesso sapete, come l’ho saputo io, come mai dall’adolescenza in poi sono stato sovrappeso, essendo partito dall’essere un bimbo magrissimo.

E vaffanculo pure a tutti i canoni estetici da anoressici di questo mondo.

Troppo tardi

Tre decenni fa, il Cicali era piccino. Ai tempi pure sottopeso, ma, si sa, le cose belle non durano.
I miei avevano una gastronomia che riforniva supermercati, mense e alimentari di cose tipo “insalata in bellavista”, “tronchetto di pathe”, “pollo in galantina”, “latte alla portoghese, “aspik in gelatina”, “uova a funghetto”, cose così, sul genere insalata russa sulla quale mio padre passava mezz’ore decorando con saccapoche ripiene di maionese e losanghe, tondini, anelli, cazzabubboli di peperone e verdura.
Tra i clienti che venivano a ritirare personalmente c’era Rolando, un omone -per me lo era, avevo cinqu’anni- taciturno ed educato, che per la sua correttezza e, diciamocelo, bontà sconfinante nell’ingenuità, si guadagnò simpatie ed affetto da tutti i lavoranti. C’ero anche io, spesso, in quel laboratorio, assieme al mi’fratello, e ricordo questo pover’uomo che mentre aspettava il completamento di un ordine ci portava in edicola o, spesso, veniva direttamente con un Topolino o un pacchetto di figurine. Ci voleva un bene dell’anima, suppongo anche perchè, single, figli suoi non ne aveva avuti. Ricordo la sua manona sulla spalla e un sorriso paterno.

Quando il laboratorio chiuse, ovviamente i contatti cessarono. Beh, diciamo che fu per educazione. Mia madre telefonò una volta, e Rolando le ricordò che lui le doveva ancora saldare gli ultimi ordini. Lei, per non sembrare in vena di solleciti, non richiamò più.

Troppi anni fa.

Un mesetto fa ho richiesto informazioni ai miei, per poter invitare al mio matrimonio questo vicenonno, visto che i nonni miei ormai non ci sono più.
“Gli farebbe piacere, pover’uomo, vi voleva tanto bene”
Cerco sul 1254.
“Abitava con la sorella, non è a nome suo, il telefono”
Niente.

Chiedo una ricerca anagrafica all’attrezzatissimo Mike.
“Ce ne sono due. Uno ha quarant’anni, l’altro purtroppo…”
Purtroppo, anni fa, pochi mesi dopo l’ultima telefonata di mia madre.

Maledetta pigrizia del “lo chiamo presto” che prima o poi prende tutti.
E’ sempre troppo tardi, se non è “adesso”.

Perchè sono solo le lezioni spiacevoli che ci vengono ripetute così spesso?

E tanti auguri!

Giust’ieri, dopo il lavoro, su richiesta dei miei genitori, son tornato ai Gigli coi medesimi.

La mia terza volta in quattro giorni.
La prima per comprare il regalo di compleanno al mi’babbo. La seconda per comprare il seitan da arrostire. La terza ieri, per il regalo di compleanno al mi’fratello.*

Già che gli s’è comprato una macchina fotografica, che praticamente non era una sorpresa visto che ce l’aveva ventilata, non m’ha lasciato particolarmente soddisfatto.
Che poi ci fosse la mi’mamma che a un certo punto, davanti a una cornice digitale, un prezzo scritto a caratteri alti come me, e soprattutto al mi’babbo abbia vociato “OH! L’hai comprata qui, vero?”, m’ha proprio scazzato.
Al banco chiede ”E se non gli piace?”. Il commesso, gentilissimo, la informa che ci sono otto giorni, mentre io la avviso “Se non gli piace, è un regalo, se la tiene e basta”

Iersera da casa dei miei si telefona al mi’fratello perchè venisse a cena festeggiare il compleanno. E magari prendersi il regalo.
Lui: “No, son stanco, passo domenica”. Ad uso degli ignari: abita a due (2)km da casa dei miei genitori, non doveva perdere troppo tempo.
La mi’mamma decide che il regalo l’avrebbe portato lei, al bar, l’indomani.
Io mi oppongo, e che cavolo, visto che magari avrebbe fatto piacere anche a me e al mi’babbo vedere la reazione del destinatario. E, per sicurezza, spennarello di nero l’etichetta col prezzo.

Iersera ho dormito a casa dei miei, visto che stamani volevo lavorare in garage col mi’babbo -e suppongo non vogliate sapere a cosa finchè non l’ho finito-; ovviamente, senza frutto, visto che dovrò tornare presto ai Gigli medesimi per procurarmi il materiale adatto che credevamo mio padre avesse.

Ovviamente la macchina fotografica non c’era più, uscita di casa assieme alla mi’mamma.

Riassumiamo: regalo quasi chiesto. Non incartato. Consegnato a mano solo da mia madre. Astutamente, con lo scontrino e la ricevuta dentro la scatola.

Un regalo tanto privo di trasporto, roba che l’SDA in confronto lavora a lume di candela.

Ora, va bene la fretta di sostituirlo nel caso che eccetera eccetera, ma son otto giorni; van bene tante cose… ma che dite, mi devo aspettare un assegno per posta, per il mio prossimo compleanno?

E, oltretutto, sapeste quanto mi rode che la mia opinione per mia madre non conti mai un cazzo.

 

 

*Sono una personcina fortunata:
Mio padre: 30/9
Mio fratello: 2/10
Mia madre: 14/10
Io: 15/12, abbastanza vicino a Natale da ricevere un regalo solo, oltre a essere l’unico sagittario che combatte contro tre bilance in un baccello -però me lo cerco: due dei miei migliori amici sono bilancia. E adesso che ci penso: Rick? devo chiedere scusa perchè sono un coglione o ancora è presto? 

 

 

Copio e incollo.

Indovinate chi è l’autore del commento a “25 ore” che mi limito a copiare per dargli il giusto rilievo. A lei dico solo “Grazie”.

…tutti all’inizio siamo degli estranei.
Io lo sono per te, tu lo sei per me.
Ma non per molto, nel tempo se lo si vuole si lascia un segno anche piccolo ma importante.
Lo stiamo facendo.
Tutti ne abbiamo/hanno bisogno.
Chiunque.
Chi sta male ha bisogno di ricevere e anche di dare.
Non so, già prima pensavo le cose in questo modo ma ora non posso fare a meno di vedere questa grande forza che si esprime libera solo se si è uniti, se si è insieme.

Spero che in parte sia rimasto dentro le persone con cui ho condiviso questo, anche in voi che leggete.
Sono molte le strade.
Non c’è un modo da cui si possa partire ad accorgersi degli altri, della vita, del miracolo della tua, del sentire che anche chi non c’è più vive in te, non ti lascia. Si è in due ora a vivere nello stesso corpo.
Quello che auguro a chi mi ha conosciuto o sta cominciando a farlo è che non si arrivi a tanto per scoprire quanto meravigliosi possano essere i giorni se condivisi.
Riprendendosi la propria vita per quanto sentiamo per intero, spaziamo lontano dai meccanismi feroci della frenesia che se ci pensate non può esistere se non glielo permettiamo.
Il tempo dell’amore per gli altri non è mai perduto.

Vivere ogni tanto nella “luccicanza” dentro le vene della vita, dimenticando qualsiasi rancore, rabbia, orgoglio: tutti sentimenti senza futuro… quanto grande è la forza che ti spazia dentro nell’attimo di quando insieme ci fermiamo e Guardiamo fuori con il respiro sgombro da ogni…siamo qui ora.

Nei corridoi e nelle stanze di quell’ospedale ho lasciato persone che neppure per un attimo avrebbero da pensare che quando sono con te si privano di qualcosa. Non c’è stata esitazione.
Non so se riuscite ad immaginarvi una situazione in cui tra tutti tu sei fra i pochi che torneranno a camminare e chi non può, o lo potrà fare dopo forse un anno… vive della tua gioia. Perchè? Perchè abbiamo condiviso le persone che siamo. Ti abbracciano felici per te. E ti dicono: torna presto a trovarci anche quando saremo a casa, ti aspettiamo.

Non è nella dimensione di vivere ogni giorno come fosse l’ultimo. Ma lasciarsi stupire da ciò che può avvenire, accogliere aperti già tutte le sfumature che possono esserci dietro e dentro ogni volto.

Scompaiono i segni lasciati dagli interventi, scompare il lento e rauco suono della voce di chi ha tenuto la tracheo per mesi ma senti ciò esprimono.
Non esistono, mentre parli con loro, le difficoltà che hanno a muoversi, o parlare, non ci sono sedie a rotelle. Non c’è sofferenza quando ci si guarda negli occhi o ci si stringe le braccia. C’è lotta, la gioia di (con)vivere.

Chi sono io? Chi sono gli altri? Neanche la paralisi riesce a schiacciare quello che è in noi. Mentre parli ti dimentichi di te e loro dimenticano il loro corpo se tu glielo permetti. Noi non siamo ciò che l’incidente ha fatto di noi. Noi siamo. Non ci sono segreti dietro i volti che non sorreggano altro che una piccola chiave, la semplicità.

Quello che più fa male è sentirsi dire “poverina” o sentirsi addosso tutt’acquosa complicazione di uno sguardo compassionevole… questo è fermarsi, tagliarsi fuori da quanto ci possiamo dare.
Entrambi. Chi è “malato” e chi no.
Forse…un sorriso, un contatto.
Chi è sulla sedia a rotelle spesso può dare di più perchè non ha i limiti che le persone si danno di solito.
…vorrei che lo sentiate anche voi tutte le volte che entrate in un ospedale.
Gli ospedali sono luoghi molto speciali.
Quello che è successo malattia o incidente è sempre presente o addirittura evidente ma ciò che ci si dimentica è chi c’è dentro la pelle delle persone a letto.
Per la guarigione o per la serenità della persona è importante far ri-vivere quella parte che meno si vede…
Un sorriso, un contatto…
Ho ancora fisso dentro di me tutto questo e terrò vivo quanto ho ricevuto da tutti. Grazie a quelli che mi hanno permesso di entrare a passi silenziosi nella loro vita e di riuscire a dare tantissimo.

Quello che è stato è che mi è hanno dato quanto di più forte, le persone che esternamente ora hanno meno possibilità di riprendere una vita, o una vita normale.
Sono stati Giorgio e Ines, rispettivamente il marito e la figlia di Cristina, la donna che è imprigionata in un corpo che non le risponde.
Lei c’è! lo potreste sentire con i vostri occhi se ve ne date il tempo…ore che non darei mai in cambio per nessuna ragione al mondo.
Cristina c’è… colei di cui avete letto da Simone delle fotografie:
“Prenditi tutto il tempo che vuoi, noi ti rivogliamo così”.
Non ne sanno i medici di quando Cristina improvvisamente da contratta che era se sente il tocco o la voce di sua figlia Ines riesce a rilassarsi e trovare pace in un corpo che la lega. Cristina c’è.
…sono stati Giorgio e Ines a entrare, sedersi accanto ai nostri letti e a darci coraggio e amore più di tutti quanti gli altri.
Io vi chiedo di trovare la risposta da voi al… Perchè?

Vi abbraccio,

         Back to the basic

 

25 ore

23.03 di venerdì. Parto. Un ticketless e due codici, un palmare con i dati di viaggio e diverse ore di telefilm, un litro d’acqua, fazzolettini, la mia borsa geek, due libri. Un cellulare che si scaricherà ben presto, nonostante alla partenza sembrasse carico.
Ad Arezzo uso i codici per stampare i biglietti che mi porteranno da Arezzo a  Verona, da lì a Brescia, da Brescia a Bergamo. Ho scelto l’Arezzo-Verona perchè dura sei ore, e magari riesco a dormire e ad arrivare non troppo presto a Bergamo.
Appena entro nello scompartimento assegnatomi, il pianista smette di suonare, l’oste di versare whisky, le sciantose si fermano con un piede sulla prima sedia disponibile. Vengo fissato e analizzato. Me ne frego, e mi siedo abbracciato allo zaino.

Tento inutilmente di dormire. Il caldo -tengon tutto serrato- e la puzza di piedi mi cacciano.
Mi siedo sullo strapuntino nel corridoio e finisco  Palahniuk. Dormicolo pure un po’, finchè una folle mi sale addosso per chiudere tutti i finestrini del corridoio dicendo “Fa freddo”. Io le rispondo “Nel caso, lì c’è il mio posto. Non chiuder tutto, che è a malapena fresco, chiuditi nello scompartimento”.  A Bologna si alza un ragazzo con la faccia da ingeNiere da uno scompartimento in cui tengono la luce accesa e porta e finestrino semiaperti. Prendo il suo posto, leggo una ventina di minuti giusto per pudore e dormo benino fino a Modena, dove sale un tizio che occupa il posto liberatosi accanto a me e quello accanto ancora, resta a piedi nudi a stropiccia la faccia contro un sedile. Io, che ho schifo a metterci il sedere e la nuca, rimango basito. Ma dormo lo stesso a sprazzi fino quasi a Verona.

Di lì a Bergamo, poca storia. A Bergamo vengo depistato tre volte da una fermata del bus all’altra, visto che gli autisti stessi non sanno dove stanno andando e non sono in grado di dare informazioni certe ai turisti. Temo che l’ospedale che sto cercando sia un ospedale militare, a questo punto.
Scendo a  Mozzo e inizio a inerpicarmi su per una collina, tra le ville. In una villa più grande delle altre, seduta su una panchina, mi aspetta sorridente attraverso la recinzione Ilaria. E’ quella la sorpresa di cui mi parlava via mail: il trovarla seduta invece che a letto.

Ilaria è la ragazza che ha avuto l’incidente assieme a Giacomo. Ha subìto la frattura di tre vertebre, e avrebbe dovuto tornare in piedi solo a ottobre. E invece.

Quando mi abbraccia, senza una parola, come fa lei, ho dei seri problemi. Ha un busto che le va dalle anche alla nuca e poi alla fronte, dove una fascia le da un’aria alla Bjorn Borg, e i capelli tirati su la fanno sembrare un ananas. Non so dove metter le mani, e quando poi le metto una mano alla vita quasi la sbilancio. “Ma quanto sei dimagrita?” E’ alta quanto me, e pesa nemmeno quarantacinque chili. “Eh, sono pure ingrassata, prima avevo la dieta frullata”.
Agguanta il deambulatore, e contenta e ancora incredula che ci sia davvero mi porta a fare un giro del centro di riabilitazione. La palestra, la fisioterapia. Il busto le tiene in linea il torso colla testa, quindi non si volta e non si china. Le cammino un passo avanti, così mi vede, anche.
Vedo macchine e cartelli che mi spezzano il cuore solo perchè esistono: “Vedi, quella serve a chi ancora non riesce a stare in piedi da solo”, dice lei indicandomi una specie di inginocchiatoio imbottito, con contrappesi e alloggiamenti per i piedi. Non so a cosa serva, e credo che mi farebbe male saperlo.

Andando verso la sua stanza saluta mille infermieri e mille pazienti, tutti per nome. “Vedi, lui è caduto dalla moto, cammina da una settimana e già se ne va”; “Lui ha la mia età e già è infermiere”; “Lui è un furbo: le braccia le muove meglio di me, ma quando c’è l’infermiera carina si lascia imboccare”.

Passiamo in una stanza dove una donna, dal letto, sembra guardare di sottecchi verso la porta. Le mani sono contratte, il volto triste, gli occhi semichiusi, la testa oscilla un po’ e le labbra sembrano recitare qualcosa come se lei stesse debolmente negando qualcosa, un dolore, un dispiacere. “Salve” faccio io. Ilaria invece entra, le prende la mano e basta, zitta, la guarda fissa. Non so, nemmeno un minuto, ma a me sembra un’eternità, quando capisco che la donna è lì ma non c’è. Ilaria si stacca, mi fa vedere un pannello di sughero dietro le mie spalle. Ci sono attaccate le foto di una bellissima donna al mare, nell’acqua fino al ginocchio in costume intero, la stessa che partecipa a una gara in bicicletta, e la scritta “prenditi il tempo che vuoi, ti rivogliamo così”. Ilaria mi dice solo “Sposata, una figlia di diciassette anni, una caduta in bicicletta”.

Un’altra stanza. Una donna coi pantaloncini, coi quali le calze antitrombosi sembrano costituire una specie di tutù. Lei parla a fatica, le hanno tolto da poco l’intubazione da tracheotomia. Caduta in casa, tre mesi di coma, ha ricominciato a parlare da poco.

E poi Ilaria mi racconta mille cose. Della carenza di invidie e rancori. Di come tutti facciano il tifo per tutti, lì dentro, dove quello che di peggio c’è è il vittimismo. Di come abbia imparato a essere contenta di come sta, anche nel dolore.

Le ore passano in fretta e lentamente assieme, come se fossi ubriaco. Sono più stanco in testa, nel cuore, che addosso. La sofferenza e i sorrisi assieme mi hanno prostrato più del viaggio.

Strappo a Ilaria la promessa che una delle sue prime trasferte sarà a Firenze, che lei dice mancarle tanto. La abbraccio -ho quasi imparato a farlo- e mentre mi allontano vedo che aspetta che sparisca senza muoversi dall’ingresso della clinica. Saluto con la mano.

Poi, beh, il McDonald col cesso più sporco del mondo e i commessi più gentili, il viaggio di ritorno dove, convinto di avere un’ora per un cambio, a Milano sono sceso dal treno per Bergamo e salito sul treno per Santa Maria Novella con un minuto di scarto, cazzeggiando nel frattempo per la stazione. I tre telefilm visti dal palmare sull’eurostar grazie alla mia borsa geek e alla presa sotto il tavolino del treno medesimo. Le tre quindici-sedicenni salite a Bologna, che, convinte che con le cuffie non sentissi, si sono fatte ingannare dalla mia faccia da poker e hanno raccontato cose da far arrossire un camallo. La skater in SMN che ha fatto il biglietto arrivando alla self-service e andandosene a rotelle, e ha dimostrato che si può essere aggraziati anche da emo -non si direbbe- e con la faccia devastata da non so quante caccole di metallo.

E alle 23.57, più sei minuti a piedi, a casa mia. Abluzioni e letto, fino a stamani a mezzogiorno. E poi di nuovo a letto nel pomeriggio, ancora stanco e devastato. Che non è il viaggio, è dove vai, che ti cambia, checchè ne dicano poeti e registi.

Ciao

Ciao, Giacomino.

Ho saputo solo iersera. Ti saluto qui, in un posto pieno di boiate, perchè “c’è anche un monte di donne” e a te di certo avrebbe fatto piacere essere in tanta compagnia.

Volevo trovare qualche foto di te al Gathering, magari senza maschera da orco, ma in posa da battaglia. Non l’ho trovata. Ma rimedierò.

Sono sicuro che hai lottato, in quegli ultimi secondi, come facevi sul campo, come hai fatto per una vita.

Sono sicuro che tu stesso rassicureresti la povera figlioluccia che ti era accanto. Non è colpa sua, si chiamano incidenti per quello.

Ci ricorderemo del tuo vocione, della tua risata, dell’essere sempre in prima fila. Mi ricorderò della volta che mi hai pagato in fumetti un paio di guanti da battaglia. Non avrò più coraggio e modo di venderli, e pagarti la differenza che non hai voluto al momento.

E sono certo che se c’è un aldilà, stai sorridendo, e magari smezzando Drow.

E’ per questo che ti saluto con un sorriso anche io, e non una lacrima.
 

 

 

Superpoteri

CAPAREZZA – EROE

“Questa che vado a raccontarvi è la vera storia di Luigi delle Bicocche,
eroe contemporaneo a cui noi tutti dobbiamo la nostra libertà”

Piacere, Luigi delle Bicocche
Sotto il sole faccio il muratore e mi spacco le nocche.
Da giovane il mio mito era l’attore Dennis Hopper
Che in Easy Rider girava il mondo a bordo di un chopper
Invece io passo la notte in un bar karaoke,
se vuoi mi trovi lì, tentato dal videopoker
ma il conto langue e quella macchina vuole il mio sangue
..un soggetto perfetto per Bram Stroker
Tu che ne sai della vita degli operai
Io stringo sulle spese e goodbye macellai
Non ho salvadanai, da sceicco del Dubai
E mi verrebbe da devolvere l’otto per mille a SNAI
Io sono pane per gli usurai ma li respingo
Non faccio l’ Al Pacino, non mi faccio di pacinko
Non gratto, non vinco, non trinco/ nelle sale bingo/
Man mano mi convinco/ che io

sono un eroe, perché lotto tutte le ore. Sono un eroe perché combatto per la pensione
Sono un eroe perché proteggo i miei cari dalle mani dei sicari dei cravattari
Sono un eroe perché sopravvivo al mestiere. Sono un eroe straordinario tutte le sere
Sono un eroe e te lo faccio vedere. Ti mostrerò cosa so fare col mio super potere

Stipendio dimezzato o vengo licenziato
A qualunque età io sono già fuori mercato
…fossi un ex SS novantatreenne lavorerei nello studio del mio avvocato
invece torno a casa distrutto la sera, bocca impastata
come calcestruzzo in una betoniera
io sono al verde vado in bianco ed il mio conto è in rosso
quindi posso rimanere fedele alla mia bandiera
su, vai, a vedere nella galera, quanti precari, sono passati a malaffari
quando t’affami, ti fai, nemici vari, se non ti chiami Savoia, scorda i domiciliari
finisci nelle mani di strozzini, ti cibi, di ciò che trovi se ti ostini a frugare cestini
..ne’ l’Uomo ragno ne’ Rocky, ne’ Rambo ne affini
farebbero ciò che faccio per i miei bambini, io sono un eroe.

sono un eroe, perché lotto tutte le ore. Sono un eroe perché combatto per la pensione
Sono un eroe perché proteggo i miei cari dalle mani dei sicari dei cravattari
Sono un eroe perché sopravvivo al mestiere. Sono un eroe straordinario tutte le sere
Sono un eroe e te lo faccio vedere. Ti mostrerò cosa so fare col mio super potere

Per far denaro ci sono più modi, potrei darmi alle frodi
E fottermi i soldi dei morti come un banchiere a Lodi
C’è chi ha mollato il conservatorio per Montecitorio
Lì i pianisti sono più pagati di Adrien Brody
Io vado avanti e mi si offusca la mente
Sto per impazzire come dentro un call center
Vivo nella camera 237 ma non farò la mia famiglia a fette perché sono un eroe.

sono un eroe, perché lotto tutte le ore. Sono un eroe perché combatto per la pensione
Sono un eroe perché proteggo i miei cari dalle mani dei sicari dei cravattari
Sono un eroe perché sopravvivo al mestiere. Sono un eroe straordinario tutte le sere
Sono un eroe e te lo faccio vedere. Ti mostrerò cosa so fare col mio super potere.

 

Ecco. Chiunque faccia la sua parte dignitosamente, onestamente e senza scendere a compromessi morali, è un eroe.
Caperezza -un genio, come al solito- ha espresso quel che ho sempre sentito: gli eroi non son quelli che fanno cose grandi con grandi poteri, o che affrontano incoscientemente pericoli, ma coloro che sanno cosa rischiano e fanno quel che possono con quel che hanno, rischiando per il bene dei propri cari.

Quando lavoravo in hotel, mia madre diceva in giro che ero un “interno”. Quando la sentivo, io la correggevo: “Puoi pure dire che faccio il facchino”.
Ho fatto il facchino, il manovale, stuccato pozzi neri, venduto porta-a-porta, a testa alta, perchè erano lavori onesti anche se faticosi. Già allora ero orgoglioso, mi sentivo eroe.
A mia madre, che del mio lavorare era contenta ma che comunque sperava e spera in ”qualcosa di meglio”, sempre, come tutte le mamme, pure quella di Agnelli, suppongo, spiegai che le piramidi le hanno costruite non un faraone, ma forse un architetto, e certamente degli operai che si sono spaccati la schiena.
Io non vedo le piramidi come un monumento al faraone, ma ai mille e mille operai, al sudore, al Lavoro.

E sono orgoglioso di poter ringraziare i miei nonni e i miei genitori se ho questo punto di vista.

The silence sounds like a little question

Grosso errore, premere il “mute” della radio. Il silenzio in auto mi lascia il tempo di pensare. E torna fuori quella domanda.
Una piccola domanda che mi gira in testa ormai da un po’, e non può che intristire una partenza peraltro allietata da una graditissima telefonata.

Una domanda passepartout che mi si ripresenta da anni, ogni volta che mi giro intorno e guardo da abbastanza lontano.
“Perchè io no?”

“Non è l’autore, nè il luogo in cui viene espressa, che fanno la dignità di una affermazione”

(prof. C. Florenzano, I.T.I.S. A. Meucci, circa 1990)

Quanta ragione, professore, quanta ragione.
Questa sera (per un altro quarto d’ora almeno è “questa sera”), tra una pinta di sidro e una chiacchiera con una amica improvvisamente, inaspettatamente e fugacemente giunta dal bergamasco, mi son dovuto recare in bagno.
Alle mie spalle, mentre shakeravo via gli ultimi distillati, è giunto il Geometra, diretto per fortuna verso l’orinale accanto.
Il Geometra è un ragazzo dall’età collocabile in maniera sicura solo tra i venticinque e i quarantacinque anni, lungo lungo e secco secco, sempre con un paio di pantaloni di pelle e una t-shirt scura, che, probabilmente non è mai tornato da qualche “viaggio” di piacere.
Deve il soprannome di Geometra -quantomeno tra me e il mi’fratello- al fatto che spesso ci entrava nel bar a passi resi ancora più lunghi dalle gambe da trampoliere, talvolta sacramentando, talvolta discutendo tra sè e sè, spesso contando i passi come se stesse effettuando un rilievo catastale. Lui ci ha dato la prova che sono i fatti quelli che contano, noi, per riferirci a lui, gli si mise questo soprannome.
Insomma, mentre arriva, mi guarda e mi fa, oppure “fa” e basta, senza per forza rivolgersi a me che comunque ero l’unico presente:

“Eh, il mondo è strano”.

Dieci minuti prima stavo pensando a chiudermi in casa per una settimana, sovraccarico di input emotivi come mi sento da tre o quattro giorni, e da quella frase ho capito che, beh, se la saggezza, per quanto spicciola e fatalista, si trova pure nel “Gents” del Joyce, è bene che veda più gente possibile.

Eh, già. Il mondo è proprio strano.

Andata

Teso come una corda di violino, eppure con un mezzo sorriso perchè “Tranquilla, mamma, è tutto normale, anzi”.

Un passo nella stanza. E’ voltato dall’altra parte, dalla parte dei tagli, del polmone che non c’è più tutto. Capisco che è per non far tirare i punti. Vado avanti io: un visitatore per volta.
Dorme. Ormai da dodici ore, ma quando gli sfioro la mano alza le sopracciglia. Sorrido a mia madre, che è rimasta sulla soglia. Sul torso nudo, elettrodi attaccati alla macchina che lampeggia verde, una di quelle macchine che finora avevo visto bene solo nei telefilm. Mi accorgo sorpreso che so leggerla. Hanno tacitato l’allarme della saturazione, ma mi spiegano che è perchè quando parte lo sfigmomanometro si azzerano i rilevamenti, e scatterebbe un allarme ogni quarto d’ora. Tutto a posto; dice mamma che ha pure ripreso colore, da oggi, quando lei piangeva al telefono, la telefonata dopo “E’ tutto a posto, è uscito”, quella in cui lei diceva “mi par che soffra così tanto, non so cosa fare” e io “dai, tranquilla, per quello che gli hanno fatto un po’ di male lo sente per forza, sanno quello che fanno” e altre banalità confortanti.
“E’ normale che dorma così tanto?” “Normale non esiste” “Giusto.”

E allora stiamo un po’ per uno, dentro e fuori, ad aspettare che per caso apra gli occhi. Vedo le sacche e le fiasche ai piedi del letto, lo sento respirare ritmicamente ma a fatica sotto la mascherina.  Vedo il torace che si gonfia asimmetricamente. Aspetto che apra gli occhi. “Tranquilla, mamma, lo sai che noi di casa siamo famosi per le dormite”, le dirò poi in auto, e ricorderemo il volo fino a Nairobi.

Finisce la mezz’ora di passo, aspettiamo il medico montante.

Lui entra nella stanza, lo sveglia, sente come sta. Mia madre sorride di nuovo di lontano, ma si volta e si allontana quando mio padre si lamenta dopo il colpo di tosse chiestogli dal medico. Quando si gira di nuovo, ha gli occhi lucidi, e io per distrarla ammicco verso la stanza e faccio il click-click colla bocca che facciamo per chiamarci quando le parole son di troppo. Lui non si volta, non ha sentito.

Il medico esce, ci rassicura. Poche parole, precise, cordiali. Ci chiede se vogliamo farci vedere da lui per un secondo. Mio padre è ancora intontito dall’anestesia, ma ci riconosce, chiede da bere, appena brusco per il dolore del parlare. Avviso l’infermiere, gli chiedo se gli si possono bagnare le labbra, mentre mia madre dice al mi’ babbo che saremo di nuovo lì domani.

Ringraziamo medico e infermiere, gentilissimi verso di noi e premurosi verso lui, salutiamo loro, il compagno di stanza e mille volte mio padre, e andiamo via.

“Visto, mamma, sei più tranquilla, adesso? Te l’avevo detto, io”

E adesso so di non aver detto una bugia.

Dell’Attentismo

Praticamente, una comunicazione di servizio.

Stasera provo a finire la puntata del racconto, Rick, giuro. Però tu togli gli spilloni da quella bambola, che tanto non funziona, gne-gne-gne! (titoli dei giornali di domani: “Trentaseienne trovato morto in casa, al PC, mentre cazzeggiava invece di scrivere” “S.C., 36 anni, è stato trovato morto dai vicini, insospettiti da qualsiasi cosa, visto che i cavoli propri non se li sono fatti mai. Il cadavere, riverso sulla tastiera di un PC, connesso a una chat presumibilmente satanica o pedofila, a seconda che MSN stia per “Mighty Satan Network” oppure “Minori Stuprati Nottetempo” -le ipotesi sono al vaglio degli esperti- presentava numerosi segni di spillone nella zona lombo-sacrale, la scritta “muovi il culo!” graffiata sulla schiena (che si tratti di un omicidio legato all’ambiente omosessuale del quale il C. è adesso sospettato di fare parte?) e del cotone da imbottitura in bocca e all’interno dello stomaco. Gli inquirenti stanno puntando su quest’ultimo particolare, indicante l’appattenenza del C. a una qualche flangia sudista-razzista-segregazionista-neonazista americana, per la soluzione del caso.”)

Dicevo? Ah, si, Rick, posa quello spillone, eh?

Dicevo anche che appena ho finito con quello, bisogna che inizi davvero a buttar giù i fondamenti dell’Attentismo -ma che nome del cavolo: meglio Curazionismo, Focalismo, o suggerite voi il nome per un comportamento basato sulla cura e attenzione, che mi fate un favore- visto che ieri una mia amica mi ha comunicato che quando ne applica uno dei principi si sente felice.

No, non è vero. Me l’hanno chiesto di nuovo. In maniera semiseria, ma mi hanno di nuovo chiesto come mai eccetera eccetera. Io ho scherzato su ciclotimia e pasticche, ma mi han risposto: “dai, sul serio, dimmi come fai”. Volentieri, però urge un disclaimer.

Io non penso di essere, e non penso che voi pensiate che io sia, un guru, un maestro di vita, o men che meno un filosofo. Ragazzi/e, io sono un buffone. Sono sereno perchè sono un irresponsabile, ho la faccina liscia perchè non mi preoccupo di nulla. Non vi fidate, ve lo dico subito.

Però, visto che pure Ron Hubbard, mediocre scrittore di fantascienza, ha fondato per motivi fiscali una religione per ricchi -o per chi ha parenti ricchi-, mi sento autorizzato a divulgare i precetti della MIA felicità, sia mai che possa essere utile a qualcuno. A me per primo. Gratis, cavolo.

Se qualcuno ha da ridire, lo faccia ora, o taccia per sempre.

OUCH! RICK, POSA LO SPILLONE!

edit: guardate come suona questo per la quarta di copertina.
 

Dentro e fuori

Ieri dopo il lavoro sono andato al LIDL, che c’erano in offerta l’HUB USB e la pendrive.

Mia madre, saputolo in anticipo, ne ha approfittato appioppandomi una lista di tre oggetti per una mezza dozzina di kg (“confezione da 6 bottiglie acqua tonica, varechina flacone convenienza…”), pertanto prima di scendere dall’auto, per una volta in vita mia, mi son ricordato di prendere il borsone da carrello per poter portare tutto.

Ovviamente, in corsia niente pendrive. Agguanto una commessa, che mi riferisce “Memorie finite, le porte sono alle casse”.

Mi metto in fila.

Quando sto per appoggiare il borsone sul chilometrico nastro, vedo una tizia dietro a me sommersa di roba tenuta in mano, tipo tappetini in poliuretano salvaginocchia. Dico solo “Posso?”, glieli levo di mano, li appoggio sopra il borsone.

“Uhgrazie,” fa lei “eh, non sono organizzata come te… sono entrata per due cose, non ho preso il carrello e poi…”

“Tranquilla” dico io guardandola in faccia e sorridendo (Molto caruccia. Una bella Signora curata. Magari un cinque o sei anni più di me, e lo stesso caruccia assai. “Da battaglia”, come avrebbe detto il Ragno ai tempi d’oro) “di solito ci sono io, sormontato di roba, che dimentico la borsa in auto… e ho solo tolto il più leggero”

“Ma che bella borsa… ma dove l’hai trovata?”

OK, io sono un nerd. Sono pure un perfetto imbranato nei rapporti col gentil sesso. Ho “broccolato” solo DUE volte, “a vista”, e della seconda non sono nemmeno sicuro.

Però, in quanto latore di molte delle medesime, so riconoscere le “scuse pretestuose di conversazione”. E lo sguardo trombino lo so riconoscere, visto che la sua carenza nelle mie interlocutrici ha segnato la mia esistenza. Oddio, ci stava provando!!! UNA DONNA CHE CI PROVA CON ME (aspettatevi il settimo sigillo, a breve)

Ho cominciato, stranamente senza balbettare, a decantare le lodi della borsa agganciacarrello della esselunga, con tasca portamonetina il gettone contenuto nella quale è ottimo per la CONAD… una quantità di stronzate impareggiabile. E continuava ad ascoltarmi rapita.

Mi ha salvato dall’implodere solo la cassiera, che non sapeva dove tenesse le HUB. “SilverCrest, è quella scatola là”, faccio io, e quando me la porge taglio col Victorinox che tengo in tasca il nastro adesivo che ne copre l’ottanta per cento della superficie per evitare che la cassiera continui a graffiarlo con le mani, come un gatto alla finestra.

“Uuuh, com’è attrezzato!” sento dire dalla Signora dietro di me. Mi mordo il labbro inferiore per non rispondere “Già mi immagina nudo, eh?”, battuta peraltro scontata ma che la signora non si meritava.

Continuando a sorridere, pago, saluto la cassiera, saluto ancora più amabilmente la signora e torno all’auto, e solo lì realizzo che ho lasciato cadere un’occasione che quelche anno fa avrei considerato implausibile (“A chi, a me? naah”)

Perchè magari sono piaciuto (credo, ovviamente, che di certo non ero nel capo alla Signora)? Perchè ero rilassato, tranquillo, credo. Le ho tolto di mano i salvaginocchia senza secondi fini, senza tensione, perchè era meglio farlo, non perchè “se lo faccio magari…”.

Non ero di fretta, non ero teso, ero sorridente e tranquillo.

Questo mio stato di beatitudine, per quanto preludio a chissà quale tragenda, si sta davvero estendendo al mio esterno, al mio modo di agire e relazionarmi, evidentemente.

(Non assumo sostanze stupefacenti, giuro!)

Non sono autocelebrativo perchè me ne bullo… è che sono sorpreso, sto cercando di condividere, finchè dura, questo stato di serenità. Mica posso scrivere solo post di disgrazia, atarassia e rancore!

E poi…

Sono sorpreso anche solo di non aver indagato. Una donna che compra dei salvaginocchia pratica certamente attività molto interessanti, no?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritmi

Sto meglio. Ho trovato i miei ritmi per la mattina, suppongo. Fisici e mentali. Ne parlavo ieri davanti a un’acqua tonica e mozzarelline fritte, coi soliti del mio Cheers.

Sveglia dieci minuti prima del solito.

Appena in piedi, succo e biscotti, in modo da alzare subito la glicemia e avere il ”carburante”.

Qualche minuto di esercizio leggero. Talvolta pesi, talvolta corpo libero, a seconda di quanto volenteroso mi sono alzato.

Abluzioni.

Preparazione bento, se non è già in frigo dalla sera precedente.

Sul viadotto Marco Polo, sosta dal McDonald, per caffè e brioche (un euro) da portare via.

Cinquanta metri più avanti, coda. Invece di dannarmi imprecando e sbuffando, faccio colazione con quanto sopra, ancora calduccio. E, diciamocelo, la mattina inizia meglio, se usi un tempo morto facendo qualcosa che ti piace quasi quanto le facce di invidia dei vicini di auto. A volte c’entra pure un ritocco alla rasatura col rasoio a pile che tengo nel cruscotto.

Arrivo al lavoro calmo e rilassato, e soprattutto, già sveglio sia nel fisico che nella mente. E, sospetto perchè do una bella “pedalata” al metabolismo, ho pure perso tre kg. O così, oppure ha letto il blog e mi vuol dimostrare di cosa è capace.

Ho poi imparato a cercare piccole mete, piccole gioie.

Le dieci per il caffè, mezzogiorno per il bento, le quattordici per il the o il caffè alla macchinetta coi colleghi, il libro la sera, il telefilm appena a casa, anche il prima tanto odiato turno serale perchè al mattino posso far la spesa con calma, la birra con gli amici.

La vita è fatta anche di piccole gioie che dobbiamo imparare a riconoscere. Stamattina mi sono svegliato piena di voglia di fare, muovermi, lavorare. Che bello, quel quarto d’ora a letto ad aspettare che passasse!!! 

 

Comprensione

Quando ti dicono che “Lei”, quella per la quale hai stillato sangue da ogni poro per due anni, sangue misto a amore, rimpianti e speranza tracimati pure su un blog, quella che con te è stata in coppia per due settimane circa in fila, e diversi finesettimana e pure qualche pomeriggio estemporaneo, quella con la quale ai tempi “hai rischiato” e non sapevi cosa sperare, quella che vedevi come un tuo futuro troppo tardi ritrovato e ingiustamente perso, quella che t’ha strapazzato più il cuore che altro, quella con la quale avevi dei feelings che non riuscivi a spiegare razionalmente,

è incinta

e ti viene solo da dire “ma che bello! le auguro tanta felicità” PERCHE’ LO PENSI DAVVERO, perchè capisci che magari la TUA vita è da un’altra parte e davvero speri che lei sappia da che parte è la sua, finalmente,

ecco, ALLORA capisci d’essere cresciuto.