Category Archives: Racconti

Novità

Ecco qua le mie due ultime fatiche:
un giallo anomalo, senza sparatorie o inseguimenti, ambientato a Firenze, con protagonisti piuttosto insoliti,
e il compendio dei racconti del Ceppo, che raccoglie i quattro usciti in Inaspettatamente e Probabilmente, più un quinto che sarà incorporato in una raccolta solo tra qualche mese.
Quest’ultima pubblicazione è ovviamente pensata per chi non ha letto le mie raccolte ed è interessato solo al nostro paesino preferito… o per chi non può aspettare il terzo volume il cui titolo finirà in -ente.

Trovate tutto su Amazon o, meglio, dalle mie mani ansiose di far dediche. Sapete in quanti modi me lo potete chiedere. Il più lesto è venerdì-sabato-domenica 3-4-5 febbraio al centro commerciale “il Parco” di Calenzano, per dire.

Grazie dell’attenzione!

Due Racconti

Allora.
Che i racconti sono (per ora, giuro) l’unica cosa che mi riesce lo sapete, vero?
Ecco.

È appena uscita la nuova raccolta di racconti del progetto EUROPA NERA, curata da Michele Borgogni e da Andrea Berneschi.

Copio, aggiusto e incollo l’annuncio del buon Borgogni.

Il volume è in offerta fino ad Halloween:
https://amzn.to/3f5zgyN

Si tratta di storie ucroniche/horror/weird ambientate in un mondo dove i nazisti sono riuscito a fermare lo sbarco in Normandia grazie all’aiuto di alcune…cose. Creature antiche, forze occulte, poteri misteriosi che sono riusciti in qualche modo a scatenare contro gli alleati. La seconda guerra mondiale finisce quindi in una sorta di stallo, e si va a creare un mondo diviso in tre: il blocco comunista sovietico a est, le poche democrazie liberali rimaste a ovest, e al centro l’Europa ancora salda sotto il dominio della svastica.
Anche l’Italia si trova divisa allo stesso modo: lo sbarco in Sicilia era già cominciato e gli alleati stavano risalendo la penisola, mentre al centro Italia le forze dei partigiani avevano cominciato a liberare alcuni territori occupati, ma il regime fascista di Salò riesce a mantenere il controllo della pianura padana. Dopo i referendum del 1946 si vanno a formare quindi un Regno d’Italia saldamente alleato degli americani a sud (con la Sicilia che diventa il cinquantunesimo stato a stelle e strisce), una Repubblica Sociale a nord e alcune Repubbliche partigiane al centro, in Toscana, Liguria, Marche, Umbria, Romagna. I racconti contenuti nella raccolta vanno dalla provincia americana ai cieli dell’Ucraina, dalle foreste della Germania a uno stadio di Bologna, dall’Appennino toscano all’Unione Sovietica e via dicendo. Racconti di uomini, spesso piccoli protagonisti di storie personali in qualche modo simboliche di qualcosa di più grande. Storie drammatiche, spaventose, weird, a volte persino divertenti, perché alla fine questo non vuole certo essere un progetto didattico o politico, ma letteratura d’evasione, anche se tentiamo di metterci qualcosa in più.


Per dediche (almeno da due degli autori) sapete come fare: contattatemi. linktr.ee/ilcicali

https://amzn.to/3f5zgyN

Dicono di noi…
Dicono di me, via.

Ma cosa cavolo ho scritto?

Aggiungo anche qua una cosa che ho scritto, esposto e discusso in più sedi.
Sono pronto alla discussione 🙂


Forse (quasi certamente, ho avvelenato la vita a tutti) sapete che a giugno sono stato ospite e relatore al Bologna Nerd Show e anche al Modena Nerd.
Cosa avevo da dire, di abbastanza nerd e abbastanza interessante? Come al solito, ho parlato dei miei problemi di nerd ultrapignolo.

L’anno scorso di questi tempi stavo prendendo le misure dell’autopubblicazione con Amazon KDP per Inaspettatamente. Una delle caselle che ti fanno scegliere è, grossomodo, “genere”.
Ho dapprima riempito senza esitare con “Fantascienza”, poi sono iniziati i dubbi: molti dei miei racconti non hanno scienza vera e propria a caratterizzarli, ma solo un elemento anomalo. Ho scritto pure del fantasy, pare.
E allora? Allora, per non raccontare bugie (oltre a quelle necessarie alla narrazione: chi racconta storie come facciamo noi del Sodalizio racconta quasi solo bugie plausibili) ho cominciato a vagare da un link all’altro alla ricerca di definizioni precise.
Non che mi cambiasse la vita; soprattutto non la cambierà a voi, che mi abbiate letto o no, sapere a quali generi appartengono, secondo autorevoli pareri di persone più famose e precise di me, Star Trek, Star Wars o Alien.
Io ero convinto fossero diversi “sapori” di fantascienza, e invece… quasi no.

Ma andiamo per ordine. Vi faccio subito un quesito, così, per stabilire un principio:

Che film è quello che segue?
C’è l’orfano che vive con lo zio a cui piove dal cielo qualcosa che gli cambierà la vita, perché è un predestinato dalla nascita. Questo qualcosa gli è stato mandato da una principessa biancovestita e dalle acconciature improbabili, prigioniera di un tiranno il cui caposgherro uccide i sottoposti con l’ausilio di arti similmagiche non appena questi lo deludono. A due passi dal biondo orfano prescelto vive quello che diverrà per lui un maestro di vita, ex cavaliere, utilizzatore della stessa forza soprannaturale del caposgherro.
Ovviamente, il ragazzino sarà uno “spontaneo” della suddetta arte, roba che il marronevestito e filosofeggiante mentore, ex-compagno del cattivo traditore degli amici e de’ compagni d’arme (tiobonino, è colpa sua e del suo tradimento se l’ordine di Cavalieri è stato annientato) si stupisce .
Mentre il biondo e la roba piovuta dal cielo mandata dalla principessa cercano il mentore, al biondo gli ammazzan lo “Ziiooooooooooh!” e la casetta sua finisce in fiamme; il mentore muore a metà del primo film, ammazzato dal caposgherro mentre il biondo e tutti l’amichetti suoi portan via la principessa infiltrandosi  nella roccaforte con un travestimento banalissimo.
Il clou delll’opera è la battagli, in cui il Biondo fa fuori in un duello aereo tra strettoie e similcanyon il caposgherro ma, colpo di scena, il nemico principale non è battuto.

Va bene, qui il plagio è piuttosto evidente (l’ha fatto un quindicenne, dopotutto), ma ci serve per far capire che tra Eragon e Guerre Stellari ep. IVla differenza non è la trama. Quindi i casi sono due: o non è la trama che definisce il genere, che fa la differenza tra Fantasy e Fantascienza oppure le due opere appertengono allo stesso genere.

La seconda che ho detto. Quasi.

Prendiamo la definizione di Fantascienza. Anzi, prendiamone tre.
“Le storie di fantascienza sono viaggi straordinari verso uno o infiniti futuri possibili”. – Isaac Asimov
“La fantascienza è una forma di narrativa fantastica che sfrutta le potenzialità creative della scienza moderna.” – David Pringle
“La fantascienza è qualsiasi cosa venga pubblicato come fantascienza.” – Norman Spinrad

Quindi, secondo Spinrad (pure non esattamente l’ultimo cretino), se pubblicano Eragon su Urania questo diventa fantascienza. Possiamo supporre che Spinrad si fosse rotto le scatole di giustificare un editore che accettava un po’ troppi generi in una collana che magari si chiamava “Hard Sci-Fi”? Possiamo. Io lo faccio; secondo me la definizione più stretta di Fantascienza è quella di Pringle: come ne L’uomo invisibile, La macchina del tempo, Matrix o Frankenstein (sì, pure, ma faremo dopo i necessari distinguo) si introducono delle tecnologie al momento della scrittura non presenti ma teoricamente possibili (un farmaco per l’invisibilità, una macchina del tempo, la Matrice, una tecnica di rianimazione dei cadaveri) e se ne narrano le conseguenze. Frankestein-romanzo è molto meno horror dei vari film, è un Romanzo Gotico (genere a sé stante) considerato uno dei capostipiti della Fantascienza, il cui protagonista non è una bestia senza cervello che uccide a casaccio come nei film, ma il rapporto tra creatore e creatura. Per brevità: il Romanzo Gotico è un genere narrativo sviluppatosi dalla seconda metà del Settecento e caratterizzato dall’unione di elementi romantici e dell’Orrore. L’Orrore può essere determinato da diversi timori dei protagonisti o del lettore: non solo quello fisico della morte o della violenza, ma anche quello più morale della perversione delle leggi naturali.
Ma torniamo a noi. “Scienza ce ne è, in Guerre Stellari”, dirà qualcuno. Sì, ma molto poca, e di solito non sono tecnologie che portano a ripercussioni morali/etiche/sociali sulla trama. Mi viene in mente solo la razza di animali enormi che sono impervi alle spade laser che, alla scoperta della loro qualità, innescano una discussione sul loro futuro. Un episodio. Uno. Ma probabilmente ce ne sono altri, diciamo che non è una linea narrativa determinante.
“Allora neppure Star Trek”, ribatterà qualcun altro. Infatti, anche qui, “quasi”, però.
A parte qualche episodio in cui viene introdotta, che so, una nuova tipologia di propulsione o di arma e ne vengono analizzati gli effetti (di solito negativi), anche Star Trek è molto poco Fantascienza. Nonostante quasi tutte le innovazioni presenti siano POSSIBILI scientificamente (compreso il viaggio più veloce della luce e escluso per ora solo il teletrasporto, maledetto Heisenberg!), pochissime di esse sono funzionali alla trama invece che all’ambientazione. E allora che genere è? I puristi direbbero Space Opera o Planetary Romance, a seconda dell’episodio e della serie: praticamente diversi sapori di Western, dove si difende un fortino, si esplora la frontiera oppure si combatte tra eserciti. Per amore di completezza, facciamo un excursus, visto che a me Star Trek piace, e tanto, e ho voluto inquadrarlo a modo.
Sia la Space Opera che il Planetary Romance presentano avventure con ambientazioni che definire esotiche è dir poco, ma mentre il planetary romance è focalizzato sul mondo alieno, ed è quindi più stanziale e incentrato anche su rapporti romantici e sentimentali, la Space Opera è “fantascienza avventurosa colorita, drammatica su larga scala, scritta con competenza e talvolta bene, di solito incentrata su un simpatico personaggio e su una trama d’azione eroica, frequentemente ambientata in un futuro relativamente lontano e nello spazio o su altri mondi, tipicamente in tono ottimista. Spesso tratta di guerra, pirateria, virtù militari e molta azione su larga scala, grandi rischi”. L”Opera” nel genere è volutamente dispregiativo, la paragona alle Soap Opera, anche se la Space Opera si sovrappone alla Fantascienza Militare, concentrandosi su battaglie spaziali su larga scala con armi avveniristiche, ma la distinzione chiave della Space Opera dalla Fantascienza Militare è che il personaggio principale in una Space Opera non fa parte del personale militare, ma civile o paramilitare. La fantascienza militare inoltre non include necessariamente un’ambientazione come lo spazio esterno o gli altri pianeti come la Space Opera. La saga della Guerra contro gli Chtorr di Gerrold, ad esempio, è tutta sulla Terra ma con personaggi che sono a diverso titolo inquadrati nell’esercito. I protagonisti di Star Trek combattono all’occorrenza ma la Federazione non è un corpo perfettamente militare.
Una cosa sola abbiamo appurato, quindi: i sottogeneri della Fantascienza (chiamiamola così, per ora, anche se è molto impreciso, vi porterò più tardi alla mia conclusione, personalissima e opinabile) si sovrappongono, si mischiano e talvolta si negano l’uno con l’altro.

“Allora”, direte voi, di nuovo, “Star Wars è Space Opera: ci sono le battaglie, ci sono gli Imperi, ci sono gli eserciti e la parte sentimentale è presente ma limitata.”
“Nì”, rispondo io, “Quasi ma non del tutto”.

Il problema è la Forza. Ci hanno provato a darle una spiegazione scientifica, ma poi l’hanno rinnegata: al momento la Forza è un espediente di trama che si comporta in tutto e per tutto come la magia… e la magia comporta l’appartenenza al Fantasy. Niente contro i poteri mentali, la telecinesi o la telepatia, dipende come li giustifichi. King, per dire uno degli intergenere letterari più famoso, giustifica sia Carrie che L’incendiaria con anomalie genetiche o fisiche, poteri latenti ma fisici e misurabili; di contro, Il giglio nerodella Bradley è un romanzo Fantasy… ma poi si scopre che le magie più grandi e potenti sono tecnologie (computer, armi biologiche) rimaste da un lontano passato. È ancora Fantasy? Sì, secondo me, perché non è solo la scienza presente o meno, ma il come viene considerata, che definisce il genere. Se non se ne conosce e non se ne cerca origine o spiegazione una tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia (come diceva Clarke), e se come tale viene trattata È magia. Un altro esempio: tutta la Torre Nera di King.
E se la magia, invece, viene trattata come una scienza? Magicians o Harry Pottersono Fantasy, c’è poco da fare. La definizione esatta di Fantasy secondo Wikipedia sarebbe “in un’opera fantascientifica gli eventi immaginari sono presentati come gli esiti possibilidi una scienza esatta o molle, mentre le situazioni del fantasy sono frutto di leggi naturali e discipline completamente fittizie; l’ibridazione fra i due generi è comunque possibile ed è classificata come science fantasy.”
Non importa che la scienza venga spiegata, di contro. Basta solo inquadrare l’innovazione come tale e plausibile: i miei racconti “Un esercito di un solo uomo” e “AI-19” introducono il viaggio nel tempo e le Intelligenze Artificiali, ma trattano delle loro applicazioni. Anche “L’orologio del nonno” spiega poco l’origine dell’anomalia, ma, beh, si capisce che non è magia, vero?

L’altro titolo che avevo citato era Alien. Basta l’astronave a farlo diventare Fantascienza? Oppure è un Horror con ambientazione fantascientifica? Proviamo a sostituire all’astronave un sotterraneo, e allo xenomorfo un cannibale: funziona lo stesso, lo spazio non è fondamentale alla trama. Quindi di fantascienza c’è solo l’ambientazione; di più, secondo alcune definizioni (ve l’ho detto, quelli che amano le etichette raramente sono d’accordo) si tratta di un Horror solo perché l’equipaggio della Nostromo è inseguito da un “mostro”. Fosse stato un criminale si sarebbe trattato di un Thriller. Ora, va da sé che secondo questa distinzione della saga di Venerdì 13 il primo è un Thriller e si parla di Horror solo quando Jason diventa non un ragazzo disturbato ma un’entità maligna; Halloween attribuisce a Myers la sua imbattibilità alla sua malattia mentale, almeno all’inizio, e quindi sempre di Thriller si parla. “Raccontami tutto” lo possiamo mettere in questo genere. Credo. Nightmare on Elm Street, almeno, chiarisce subito che Freddy Kruger è un essere soprannaturale, e quindi è Horror dal primo capitolo.

Già, l’Horror. La definizione di poco fa prosegue con “Analoga distinzione sussiste fra fantasye horror: anche la narrativa dell’orrore si basa su elementi sovrannaturali, ma li presenta necessariamente come violazioni perturbanti delle leggi di natura, laddove il fantasypresenta la magia come parte integrante di un ordine naturale distinto e separato da quello reale; anche in questo caso l’ibridazione è possibile ed è definita dark fantasy.”.
Qui la parola chiave è “perturbanti”. L’Esorcistao Final Destination presentano due “leggi di natura” (il demone sta a casa sua, il giorno della tua morte è già scritto) non scientifiche che, se violate, portano a eventi terribili e, appunto, perturbanti. Per chiarire meglio il concetto di magia perturbante, facciamo l’esempio di Wishmaster in cui un genio soddisfa i desideri di chi lo incontra… e non finisce proprio bene per nessuno.

Torniamo a quello che scrive il Cicali. L’Horror di Inaspettatamente o Probabilmente non coinvolge mostri, di sangue se ne versa poco, è più un Horror del soprannaturale… del fantastico. Non tutti i racconti sono incentrati su nuove tecnologie, pure, e quindi non sono proprio Fantascienza speculativa. Vediamo se c’è un genere comune in cui inserire, che so, L’orologio del nonno, Siamo tutti uguali e Milio.

Dice sempre Wikipedia: “Fantastico: rappresentazione di elementi e situazioni immaginarie che esulano dall’esperienza quotidiana, straordinarie, che si ritiene non si verifichino nella realtà comunemente sperimentata. Tra gli elementi che possono definire una situazione fantastica vi è l’intervento del soprannaturale o del meraviglioso (…) Nel vasto ambito del fantastico si possono raggruppare un’ampia schiera di sottogeneri differenti, tra i quali il fantasy, la fantascienza, il gotico e l’orrore.”
Tombola. Abbiamo trovato il genere in cui incasellare buona parte di tutti i racconti NON di Hard Sci-Fi e NON Fantasy.
Fantastico, quindi. C’era bisogno di tanta capillarità? Forse no, ma ditelo ad Amazon. Però abbiamo inquadrato Bookcrossing, 4 donne il 27 febbraio e Il cortile, no?

Già che siamo a dire cosa non è cosa, allarghiamo il discorso e vediamo di chiarire.
Si attribuiscono alla Fantascienza tutte le opere di Verne, anche quelle che sono basati sulla scienza dell’epoca. Ad esempio, Viaggio al centro della Terra o Dalla Terra alla Luna sono viaggi fantastici; basato su una invenzione è invece, ad esempio, Ventimila leghe sotto i mari. Lana caprina, direte voi, giustamente, ma se non si fa questa distinzione diviene Fantascienza anche il viaggio sulla Luna di Luciano di Samosata, di Cyrano oppure quello per recuperare il senno di Orlando. O il Mahābhārata, che come la storia di Urashima Taro, comporta pure un viaggio nel tempo.
E come non bastano i viaggi spaziali, non basta ambientare nel futuro: l’Apocalisse di Giovanni non è Fantascienza, per motivi molto evidenti ma la cui esposizione potrebbe urtare i più suscettibili.

Il Cyberpunk è fantascienza? Porco cane sì. Forse il più attillato dei generi alla definizione di Fantascienza: i protagonisti sono le nuove te tecnologie e le loro ripercussioni. Talvolta fanno solo da ambientazione (guardate Nathan Never, che è troppo spesso un noir o un poliziesco con le auto volanti) ma nei lavori che hanno fatto la storia sono fonte di riflessione.

Siamo qui, completiamo la carrellata tra i sottogeneri di fantastico e fantascienza tra più in voga (no, non vi parlerò delle Edisonate, che hanno il solo pregio di smentire che gli YA sono una invenzione recente) chiarendo la differenza tra Distopia e Ucronia.
Qual è la differenza tra Vangelo secondo Maria di Magdala e I giardinieri?
Nel primo un fatto (quasi)storico è accaduto diversamente nel passato –ed è ininfluente che le sue ripercussioni siano positive o negative), nel secondo succederà qualcosa che porterà a una società repressiva e violenta.
L’ucronia, una storia alternativa basata su “E se invece…?” non è un genere nuovo, già Tito Livio nell’opera Ab Urbe condita contemplava la possibilità che Alessandro Magno avesse sviluppato il regno macedone dirigendosi verso ovest anziché verso est. Al giorno d’oggi è particolarmente gettonato, di qua e di là dall’Atlantico, un diverso esito della battaglia di Gettysburg. Vorrei anche segnalarvi l’ucronia Fantasy Motherland, in cui il processo di Salem ha condotto a un’ascesa al potere da parte delle streghe. Ah, nove decimi se non di più dello steampunk sono Ucronia.
Il mio I giardinieri, Ken il guerriero, Mad Max, 1984 e Il racconto dell’ancella rappresentano una società nel presente o nell’immediato futuro oppressiva e/o violenta. Per via delle infinite sfumature di “opprimente”, questo elenco potrebbe essere lunghissimo, da Kyashan a Robocop, Hunger games

Ecco, dopo quattro cartelle di lana caprina su frasi prese da Wikipedia vorrei aprire la discussione, perché è sempre bello venire smentito a ragione: secondo voi si possono “limare” queste definizioni? Ad esempio, Blade Runner è in un genere diverso dal romanzo da cui è tratto? 1997 fuga da New York è un thriller? Ci sono film che secondo voi ho mal classificato?




Anni di silenzio, poi, Inaspettatamente…

Lo potete trovare su Amazon oppure scrivendomi in privato, che così ve lo dedico e spedisco 🙂

Ah, la sinossi:

A volte basta un granello di sabbia per fermare un motore, un chiodo può far perdere una guerra.
Un gesto può cambiare una persona, una nota può rovinare una melodia.
Un nuovo punto di vista può alterare la percezione di un panorama.
In questa raccolta ci sono Intelligenze Artificiali, revenants, viaggiatori da altri universi, giardini segreti, bellissimi quadri, molecole impossibili, guardiani della storia, combattenti eterni.

Buona lettura, buon nuovo punto di vista.
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Variazioni sul tema (o anche: due al prezzo di uno)

Ho partecipato di nuovo al contest letterario di qualche post più sotto.
Stavolta il tema era questo:

Tema:
2012 – Da 10 anni è stato scoperto come alimentare il fabbisogno energetico del mondo: utilizzando una centrale nelle viscere della terra (sotto il mantello) attraverso il riscaldamento di enormi e desolati cunicoli gestiti tramite remoto lontano da essi e dalla centrale.
Un giorno, per problemi sconosciuti, il sistema in remoto smette di funzionare mandando completamente in blackout tutte le città del pianeta non alimentate dalle pochi altre fonti rinnovabili. Vengono mandati 3 specialisti (o specialiste) a controllare cosa succede nei cunicoli della centrale ma dopo poche ore di loro non c’è più traccia.
Mandando una seconda squadra di tecnici seguiti da un reparto dell’esercito si troverà solamente una delle persone scomparse.
Raccontateci che è successo

Dopo le mie perplessità sul genere “Come, SOTTO il mantello? Nel nucleo?” ho scritto non uno, ma due brevi racconti. Solo il secondo, limato e limato, è in concorso, nelle versione con il limite di caratteri.
Se interessa quella non limitata, è dopo il “more”…

Il più grande spettacolo dopo il Big Bang

– Insomma, ‘sti cinesi ce la fanno a superare la crisi?
– Ce l’hanno già fatta.
– Come sarebbe a dire?
– A un civile non lo dovrei raccontare, che è un segreto di Stato, rischio l’Alto Tradimento.
– E allora non dirmi nulla, non voglio amici in galera.
– No, è che a questo punto… vabbe’, ti dico quello che so. Quello che non ho visto di persona viene dallo spionaggio, quindi non garantisco il massimo dell’accuratezza. Ascolta: i cinesi l’hanno trovata, l’energia pulita illimitata.
– E che sarebbe? Il sole?
– No, la geotermia.
– Ma i costi allo stato attuale…
– Lascia perdere lo stato attuale, sono dieci anni che hanno risolto tutto. Sono a regime dal 2002.
– Dieci anni? Come sarebbe a dire?
– Capisci perché vendono di tutto a prezzi ridicoli? Non è la manodopera, che gli costa poco, ma l’energia. E la vendono, pure. A tutto il mondo. Oddio, alle compagnie petrolifere, che estraggono solo per autotrazione, acquistano a una miseria l’elettricità dalla Cina e la rivendono come se venisse dalle loro centrali a combustibile. Non credevi mica che bastassero una dozzina di termoelettriche per tutto un paese? Sono di facciata, pure quelle.
I black-out europei di dieci anni fa erano un assestamento, prima hanno venduto a loro, e le prime releases sai come sono.
– Quindi quello mondiale…
– Esatto, altro che “effetto domino”. Gli si è fermata la centrale per una settimana, e prima che si rimettessero a regime…
– LA centrale? Una sola?
– Esatto. Dai, comincio dall’inizio. Alla fine del millennio, i cinesi riescono a mettere assieme una superlega metallica, resistentissima alle alte temperature e all’usura, niente minerali esotici, estremamente conduttiva oppure praticamente isolante a seconda del reticolo cristallino. Unobtanio, la chiamano, e ci prendono per il culo anche col nome: “non ottenibile”, “non l’avrete”. Costo di produzione minimo, processo relativamente semplice. Che fanno? Invece di ricoprirci un carro armato come faremmo noi, ne fanno delle talpe meccaniche automatizzate che tagliano la roccia come fosse burro, le piantano nel centro della placca continentale e gli danno il via. Dietro a ogni talpa fanno scendere a traino una micro-centrale metallurgica automatica che processa i metalli nei detriti di scavo e li trasforma nella superlega, che usa per costruirsi un tubo attorno mentre scendono. Insomma, in capo a tre anni hanno raggiunto la discontinuità di Gutenberg, e quindi il nucleo terrestre, con un cunicolo a vite da 30° rivestito di Unobtanio. Seimila kilometri di scavo per tremila di profondità in tre anni. Se volevano, arrivavano direttamente a Washington, sbucavano da sottoterra come formiche e ai nostri figli toccava imparare il libretto rosso a memoria. Evidentemente sono più furbi di noi. Dicevo, si son fermati solo perché a quella profondità sei tanto vicino al centro di gravità che un uomo fa fatica ad alzare un braccio, e le macchine iniziano a deformarsi sotto il loro stesso peso.
E non solo. Mentre scendeva la prima talpa-centrale, ne hanno mandate giù altre che, a profondità diverse hanno creato altri rami. Una specie di radice che affondava nel centro della terra e ne raccoglieva il calore, un tubo ramificato fresco dentro e caldo fuori. Nel frattempo, appena sotto la superficie hanno creato una centrale termoelettrica grossa come sei volte Manhattan da non so quanti Terawatt. Nel 2003 i cinesi erano già autosufficienti ed esportavano il surplus, mentre ancora la struttura dendritica cresceva. L’anno scorso il 99,8% dell’elettricità mondiale veniva da quella centrale, anche se quasi nessun governo ne aveva idea. Anche ai satelliti quel poco che c’era in superficie sembrava solo un’area industriale.
– E il black-out?
– Già. Sei settimane fa, la centrale si ferma, di botto. In superficie non arriva più calore, cosa che è impossibile, visto che i cunicoli stessi sono i conduttori, una specie di radiatori al contrario. Le talpe sono in contatto costante con la superficie, usano i tubi come cavi elettrici, e non raccolgono anomalie strutturali. Tranne una dozzina, le più profonde, che non solo hanno smesso di allargare la rete, ma hanno pure interrotto i contatti.Che si fa?
– Io avrei mandato le altre talpe a vedere.
– Vedere è una parola grossa, visto che non hanno telecamere. Però sì, hanno mandato altre tre talpe, da tre punti diversi, a vedere cosa fosse successo alle più vicine. Non appena arrivano in prossimità, anche queste spariscono. E allora si mandano i tecnici.
– Ovvio.
– I cunicoli sono scavati a vite per quello, in modo da essere ispezionabili senza grossi problemi. Preparano tre veicoli da ispezione e mandano giù tre tecnici con la pagliuzza corta in mano, ognuno in un ramo diverso. Pensa te: seimila kilometri al buio, a scendere a vite.
– Ma quanto sono grandi ‘sti cunicoli?
– Non sono piccoli: la talpa ha un diametro di cinque metri per quindici di lunghezza, e la vite un raggio di duemilacinquecento. I tecnici scendevano in fretta, ma non credo gli girasse la testa. Insomma, solo la discesa è durata tre giorni. Arrivano a due kilometri dall’ultimo contatto, indossano gli scafandri, che aria pura da quelle parti ce ne è poca, e scendono a piedi lasciando il mezzo. Tutti e tre spariscono, in tre punti a seicento kilometri l’uno dall’altro, nel giro di un secondo. Le telecamere dei mezzi e degli scafandri non vedono niente di anomalo. Mezz’ora dopo è già partita una nuova spedizione, stavolta con un contingente dell’esercito.
– Cos’è, un numero dei Fantastici Quattro contro l’uomo talpa?
– Niente del genere. Stavolta non dividono le forze, e mandano a controllare un solo ramo. Altri tre giorni di discesa. Arrivano al mezzo abbandonato dal tecnico, e dalla superficie li seguono da non sappiamo quante telecamere. Avanzano nel buio. Di punto in bianco, in terra si vede lo scafandro del tecnico, in posizione fetale. Io ho visto il filmato coi sottotitoli, quindi ti posso dire solo che balbettava. Era abbastanza lucido da aver cambiato le cartucce di riciclo aria, ma non abbastanza da tornare al mezzo e alla superficie. Mentre i paramedici lo soccorrono, i militari vanno avanti, e trovano la talpa. Cioè, solo la metà posteriore. Quella anteriore è come se fosse inghiottita dalla parete di fronte. O meglio, come se fosse stata schiacciata dalla parete, scesa come una ghigliottina. Una parete, a quella profondità, non ci doveva essere.
– E cosa è successo?
– Se lo chiedono anche i cinesi. Finchè non ci piantano contro una specie di sonar. In superficie capiscono subito che la parete racchiude un’enerme cavità. Già che ci sono, fanno una prospezione sismica, che a quella profondità ancora non aveva mai fatto nessuno. Di quelle enormi cavità, intorno al nucleo, ce ne sono un migliaio, per difetto. E ognuna contiene qualcosa.
– Magma?
– Anche. Ma non solo. Dentro al magma, le prospezioni trovano delle sagome. Sagome che si muovono, seppur lentamente. E con loro, appena, si muove il guscio esterno, perfettamente sferico. È quel movimento che ha tagliato in due le talpe: appena ha intaccato il guscio, questo è ruotato come un occhio nell’orbita e hop… Il tecnico aveva fatto la stessa ecografia, e aveva capito di trovarsi davanti a… un uovo. Gli altri due tecnici… boh? Presi nel movimento delle uova? Crolli? Di certo ci sono stati dei picchi magnetici che hanno fatto impazzire gli scafandri, ma come mai nessuno dei tre sia tornato al mezzo d’ispezione e poi in superficie, non lo sappiamo.
– Un uovo di che?
– Lo sai, tu? Io no. Qualcosa di vecchio. Vecchio quanto la Terra, perlomeno. Qualcosa di alieno, se era già qui quando la Terra era giovane.
– Sì, ma cosa c’entra con il black-out?
– Qui si va nella speculazione, ma i capoccioni pensano che in qualche modo gusci assorbano il calore raccolto dai tubi arrivati a contatto molto più efficientemente di quanto i tubi stessi possano condurre verso la superficie. Avevamo fatto un buco sul fondo della diga, e non arrivavamo più a prendere l’acqua col secchio dal bordo. Siamo tornati ai vecchi metodi per un po’, quindi. Adesso sai come mai si parla di nuovo di caro-energia.
E pare che tutto questo calore tutto assieme abbia pure velocizzato la gestazione di questi pulcini. Hanno tagliato con esplosioni mirate i tubi di raccolta in contatto con le uova: il resto del calore ha ricominciato a salire verso la centrale, ma gli embrioni non hanno rallentato lo sviluppo.
– Ecco, adesso è un buon momento per dirmi che stai scherzando.
– Purtroppo no. Hanno misurato massa e movimenti delle uova in contatto con i tubi, e pare che, bla bla bla col volume dell’uovo, sia questione di mesi per la schiusa. Non dovremmo finire il 2012 senza vedere cosa c’è nell’uovo. Ci aspettiamo una dozzina di terribili terremoti in Cina mentre le fenici –già, le hanno chiamate così- scavano per uscire, la distruzione di quasi tutta la placca eurasiatica, diverse ripercussioni sul resto del mondo. Tsunami, inondazioni, cambio delle linee costiere, apertura di diverse faglie… non ci aspettiamo che la civiltà finisca, ma subirà un duro colpo.
– E me lo dici così? Non hai paura che…
– Che tu vada a raccontarlo in giro? Per far che? Cosa ci possiamo fare? Hanno provato pure con il nucleare, su un uovo. Gli ha fatto quanto il nonno alla nonna. Possiamo solo sperare che ci sia qualcuno, dopo, che possa far aprire le uova che restano a intervalli regolari, in modo da ridurre i danni, che se si aprissero tutte assieme potremmo dire addio al pianeta, non solo all’Eurasia.
E poi, se tu avessi intenzione di seminare un’inutile panico, dovrei farti fuori, cosa che non ho proprio voglia di fare.
– Cosa si può fare, sul serio?
– Fossi in te mi comprerei una casa in montagna, e lontano da Yellowstone, da vulcani, da faglie e da montagne che possano franarti in testa. Metterei da parte diverse provviste, alleverei animali, mi farei un orto. Insomma, fai il montanaro complottista pazzo dei fumetti. Però una cosa te la posso promettere.
– Cosa?
– Quando le dodici creature di magma usciranno dalla terra martoriandola, probabilmente tra fontane di fuoco e tempeste di fulmini, non credo che staranno molto da queste parti: lo spettacolo di dodici immense fenici che abbandonano il pianeta per tornare a un nido distante anni luce sarà visibile da tutto quello che resta del mondo. Credo che ne varrà la pena.

Gli intrusi

Quando il black-out aveva steso le sue dita di tenebra sulla Repubblica Popolare Cinese le luci della caserma avevano appena ammiccato prima che i generatori d’emergenza entrassero in funzione, quindi il capitano Hu non si era allarmato fino a quando aveva appreso che il black-out era nazionale, e non limitato al Qinghai. Diede quindi l’ordine di mettere la caserma in allarme come da procedura. Dopo qualche altra ora un dispaccio lo informò che la mancanza di energia era mondiale. Cosa poteva aver fermato o reso inutilizzabili tutte le centrali elettriche del mondo?
Fu distratto dal rumore di un elicottero che atterrava nella caserma, facendo tremare i vetri della finestra dietro di lui. Con la mano istintivamente sulla pistola, scese di corsa le scale verso il piazzale di adunata.
Solo la stella rossa bordata di giallo sulle insegne dell’elicottero aveva trattenuto i soldati accorsi da tutta la caserma dall’aprire il fuoco: l’arrivo non annunciato di un mezzo del genere in una caserma già in allarme era qualcosa completamente fuori dagli schemi.
– Giù le armi! – Hu urlò per coprire il frastuono del motore che perdeva giri.
I soldati obbedirono mentre il portello dell’AC313 scorreva. Hu non fece in tempo a stupirsi che l’uomo che ne uscì non indossasse un’uniforme ma un camice, che questi si diresse verso di lui. Abbozzò un saluto che con la sua goffaggine rivelò che l’uomo non era un militare e gli tese una cartelletta.
– Capitano Hu? Io mi chiamo Kuang. Mi scuso per l’allarme, ma ho il pieno appoggio dei suoi superiori, ed è una questione nazionale che richiede rapidità. Siete i più vicini al problema.

Mezz’ora dopo l’elicottero era già ripartito, con a bordo il capitano Hu e una squadra di suoi uomini, sei tuttofare in assetto di guerra, dai fucili di precisione alle cariche da demolizione.
Hu escluse dal circuito dell’interfono in cuffia la squadra e i piloti, e ingiunse a Kuang:
– Adesso mi dia tutte le informazioni che mi servono per fare il mio lavoro.- Il tono era molto simile a un ordine.
– Abbiamo un problema di natura ignota con la centrale elettrica, e abbiamo bisogno dell’Esercito per una scorta. Hanno fatto il suo nome.
– È un po’ poco. Questo lo avevo capito.- Indicò il simbolo del fulmine sul taschino del camice dell’uomo, e allargò appena un sorriso.
Kuang parve pensarci su- Va bene. La nostra non è “una” centrale elettrica, ma “la” centrale elettrica. Alimenta tutto il Paese, e praticamente tutto il mondo. Vendiamo da dieci anni, ormai, energia alle grandi compagnie petrolifere, che la rivendono poi come se provenisse dalle loro centrali a combustibile. Molti governi e la quasi totalità dei civili mondiali ne sono all’oscuro.
La centrale Da Long attinge energia termica dalle profondità terrestri e la trasforma in elettricità.
– Come tenete il segreto? Non deve essere un impianto piccolo, eppure non ne sapevamo niente neanche noi che siamo di stanza così vicini.
– Il segreto è obbligato. L’impianto è quasi completamente sotterraneo, elettrodotti e impianti di raffreddamento compresi, e un singolo ordigno potrebbe spazzarne via la parte superficiale, mettendo in ginocchio il Paese e la sua economia. Dal cielo sembra una zona industriale. Pochi uomini bastano a far funzionare un impianto da 15 Terawatt in continua espansione.
– In espansione?
– Questo è l’orgoglio della Da Long: venti anni fa abbiamo realizzato una talpa meccanica in lega speciale in grado di scavare e rivestire di lega condotti di scambio termico fino ad una profondità di 50km. Condotti ispezionabili, in quanto scavati “a vite”, relativamente freschi poichè il trasporto del calore avviene sul lato esterno, a diversa densità. L’interno è termicamente isolante, l’esterno molto conduttivo. Inoltre, una volta arrivati alla profondità ottimale, la talpa torna a 20km, e inizia a scavare una diramazione, che, nello stesso modo in cui nuova radice porta maggior nutrimento alla pianta… – Mimò con la mano puntata verso il basso l’aprirsi di un fiore.
– Ho capito, porta più energia. Cosa si è rotto? E perché vi serviamo noi?
– Cosa si è rotto non lo sappiamo. Pensiamo sia stata la sottostazione di scambio primaria, a 10km di profondità, che ha mandato segnali di allarme alle altre sottocentrali, forzandone uno spegnimento di sicurezza, ma quando abbiamo mandato dei tecnici…
– Niente?
– Scomparsi. Solo un urlo nell’interfono. Per quanto mi sembri impossibile, là sotto c’è qualcosa che li ha… beh, uccisi, credo.
– Cosa glielo fa credere?
– Conoscevo i tre tecnici. La voce che ha urlato non era di nessuno dei tre.

Il cunicolo buio e ripido in cui stavano per entrare sembrava una bocca di metallo spalancata.
– Per arrivare alla sottostazione occorrerà meno un’ora, su questi kart. 500 metri più in basso partono le diramazioni. L’unica luce fino alla stazione sarà quella dei fari. Tenete aperta la comunicazione, che, vi ricordo, non è via radio, ma ha bisogno che tocchiate il metallo della parete. Quindi appena arrivate… Ah, i kart hanno un sistema di posizionamento e ritorno automatico, nel caso sbagliaste e… Non che creda… – Kuang era ogni minuto più agitato. Sui kart a sei posti erano rimasti liberi due sedili dopo che tre nuovi tecnici in camice si erano seduti tra i militari, ed evidentemente il tecnico temeva di doverne occupare uno. Hu tagliò corto.
– Se non c’è altro, vediamo di ridare corrente al mondo. – Sapeva che alle sue spalle almeno un paio dei suoi uomini avevano alzato gli occhi al cielo per la frase ad effetto. Sorrise appena dell’espressione di Kuang, e premette sull’acceleratore.

– Qui ci sono solo cocci di vetro.
La stazione che Hu si aspettava titanica era poco più di uno stanzino scavato nella parete del cunicolo, con due terminali di computer ridotti a schegge di vetro e circuiti stampati, una parete di strumenti di misura con i quadranti sfondati, e una stretta porta in metallo.
– È il WC chimico – spiegò uno dei tre tecnici, ma quando un militare la aprì a fucile spianato una creatura urlante e spaventata si rannicchiò in un angolo del gabinetto.
– Non sparate! -, urlò il tecnico, – È Heng, uno dei nostri. –

– Cosa è successo?
– Q-quando siamo arrivati era tutto spento. A-abbiamo visto che avevano premuto l’arresto di emergenza. – Heng indicò sul pannello un pulsante rosso dietro un vetro infranto. – Stavamo per ri… ripristinare l’operatività, ma prima del contatto con la superficie… I-io ero in bagno e… li ho sentiti urlare.
Hu non chiese altro. – Su c’eravamo noi, se c’è un sabotatore non può essere andato che giù. I tecnici restano qui col materiale di scorta e il kart della prima squadra e cominciano a riparare quello che c’è da riparare. Noi vediamo di capire chi vuole Da Long ferma.

Il punto in cui il tunnel si ramificava era ampio e dal pavimento quasi pianeggiante, come una piccola piazza. Davanti ai kart si aprivano sei tunnel.
– Da che parte andiamo?- Chiese il guidatore del kart.
– Il terzo da sinistra. – Rispose Hu. – L’hai illuminata per un secondo. Guarda. – Accese la torcia sul casco, e focalizzò il fascio fino a stringerlo su una macchia rossa sulla parete. Sangue.
– Non occorre che vi dica di stare pronti al fuoco.

– Ferma qui.-
Hu poggiò un piede a terra.
– Kuang, mi sente?-
Nell’auricolare, la voce era metallica ma chiara. – Sì, la sento.-
Hu lesse a Kuang il codice di posizionamento sul display del kart. – Cosa c’è da questa parte?
– Niente di particolare o anomalo. È una delle gallerie più esterne e meno profonde, una delle ultime ad essere state scavate. La talpa è una decina di chilometri sotto di voi.
– Qualcosa di anomalo ci deve essere. Continuiamo a scendere.

“Ed ecco là l’anomalia.”
Nella parete del tunnel si apriva un foro irregolare, di un paio di metri di diametro e col bordo inferiore all’altezza della vita degli uomini. Il rivestimento di metallo del tunnel era esposto e incorniciava le tenebre.
– Kuang, è prevista una diramazione?
– No. Non lì. Dovrebbe esserci solo roccia solida, a quella profondità. Avete quasi raggiunto la talpa.
– Quindi anche il tunnel è fresco. A quale otre avete tolto il tappo? –
Tre uomini si avvicinarono in formazione all’apertura.
– Passiamo alla visione notturna – ordinò Hu, e tutte le luci si spensero. I soldati e Hu si portarono sul volto il visore che rilevava sia la più debole luminescenza che gli infrarossi. Hu accese l’illuminatore IR quando vide che di luce da rilevare non ce ne era proprio.
In verde su nero, Hu vide i tre uomini affacciarsi al foro e uno toccarne il bordo e annusarsi le dita: – Altro sangue, devono aver portato qua i tecnici, vivi o morti.-
Poi i fari IR illuminarono le tenebre nel foro.
All’inizio i soldati li scambiarono per rocce.

Sarebbe bastato che la Bestia Mangiapietra fosse passata poco distante, e non avrebbe attraversato la Tana e portato la Grotta Liscia che ruba il calore. Quando i Più Duri di noi erano andati a vedere cosa era successo, avevano seguito la Grotta Liscia per molti passi, e avevano trovato la Grotta Strana. Avevano rotto le cose che facevano rumore che c’erano dentro, e da allora la Grotta Liscia rubava meno calore alla Tana. Poi alla Grotta Strana erano arrivati dei Morbidi. I Più Duri avevano ucciso i Morbidi, e li avevano portati alla Tana per darli da mangiare a tutti.
Poi altri Morbidi erano tornati, e vollero entrare nella Tana. Scheggiarono la pelle di molti dei Più Duri, ma alla fine furono presi e spezzati. L’ultimo di loro con un rumore più forte degli altri mandò in pezzi coloro che l’avevano catturato e fece crollare la roccia chiudendo la Grotta Liscia.
Da allora la Tana è sempre più fredda. Quello che resta della Grotta Liscia e la Bestia Mangiapietra ci rubano il caldo e lo portano ai Morbidi.
Quindi gli Antichi hanno deciso che dobbiamo andare noi, dai Morbidi, e farli smettere. La decisione è passata attraverso tutte le Tane, e saliremo tutti assieme. Dovremo scavare un po’, arrivare nel Posto Senza Soffitto, forse, ma siamo tanti, e quando avremo mangiato tutti i Morbidi tornerà il caldo in tutte le Tane.

Continue reading Variazioni sul tema (o anche: due al prezzo di uno)

Revisionando

Ho partecipato a un contest letterario senza premi. Ci hanno fornito la trama -non il tema, proprio la trama, comprensiva di personaggi, ambientazione e quant’altro- e limite di caratteri.
Ho scritto e ho dovuto revisionare, sfoltire, aggiustare. Nella mia megalomania, suppongo che vi interessi qualcosa del processo, e vi illustro i passaggi. Mi limito a 3, ok?

COM’ERA:

28 Minuti – 8600 caratteri, prima versione

“Madre, i miracoli li faceva solo il su’principale, e l’hanno inchiodato”
La Superiora ci rimane un po’ male e non dice niente, ma che cavolo pretendeva dandomi una lista di cose da prendere lunga un braccio e con tanto di nomi dei prodotti? È già tanto se torneremo, figurarsi se potremo stare a scegliere. Ringrazi che non ci mando lei, a cercare da mangiare per tutti i suoi vecchi.
Ospizio del cazzo. Accidenti a me e quando ho preso il lavoro. Ogni giorno c’è qualche sciacquone che versa, un lavandino intasato e queste suore, tanto brave a chiedermi poi lo sconto sulla chiamata o i materiali con la manina sul crocefisso attaccato al collo, non son buone a versare del disgorgante. E accidenti a quando a lavandino sturato ho accettato il caffè invece di rimontare sul furgone, farmi aprire quel cancello e andare a casa. Almeno saprei che fine ha fatto la mi’moglie, che a casa non risponde da una settimana, da quando è cominciato il casino, e i cellulari hanno smesso di funzionare quasi subito. Il tempo di chiamare Michele, chiedere se i Vigili Urbani sapevano qualcosa di quella massa urlante e incazzata fuori dal parco e dal cancello che all’inizio pareva un litigio di strada, poi una rissa, poi guerriglia che il G8 in confronto erano i papaboys. “No, ne sappiamo poco anche noi, ma tutta Firenze è così. Pare ’28 giorni dopo’, i colleghi in strada dicono che la gente s’ammazza senza motivo; ma s’ammazza proprio, Simone, te dove sei?”. Insomma, son rimasto qui, dietro le mura e il parco dell’ospizio delle Sorelle blablabla della blablabla, che borbottando santissimi e altissimi, segni della croce come se grandinassero, s’eran subito accalcate nella stanza della Superiora, più alta e dalla parte della strada, a vedere da lontano la gente che scendeva in strada o, peggio, veniva tirata fuori dalle finestre, e veniva ammazzata di botte o si univa a quei pazzi furiosi. Chiamateli come volete, pazzi, rabbiosi, anche zombie, però a terra ne son rimasti un paio, ghiacciati da un fucile da caccia o da una coltellata allo stomaco, e son cristiani come noi, altro che “solo alla testa”.
Insomma, usciamo io e il ragazzetto, Paolino, che è alto quanto me e largo il doppio, e che magari nel bisogno si sa difendere meglio di me, ma di certo anche se ha insistito per accompagnarmi ha una paura che non smette di tremare. Io con lui mi trovo a disagio, che ho saputo praticamente ieri che “mongolismo” non è un’offesa ma un termine medico, che ‘sti poveri ragazzi non possono fare sforzi perché il cuore è quel che è, e che soprattutto la malattia varia da caso a caso e che Paolino è quasi e dico quasi normale. Insomma, non mi devo far fregare dagli occhi, e capire che quando ha detto che voleva uscire anche lui sapeva cosa diceva. La su’mamma tanto è lì che piange in camera del su’nonno dall’inizio, mi pare che abbia poca voce in capitolo.
Insomma, saliamo sul furgone, svuotato delle mie cose. Le suore sono al cancello, che devono aprirlo e soprattutto chiuderlo velocemente. La cuoca ha nel grembiule un coltello da macellaio, e un altro paio si appoggiano a tubi d’acciaio, che ha detto il Cardinale che i rabbiosi “ormai sono bestie senz’anima ed è un dovere difenderci”. Avevano dato un coltellaccio anche a Paolino, ma poi l’abbiamo scambiato con la mia giratubi grossa, che se si tira quella in un ginocchio si fa meno male; speriamo bene comunque, che da due giorni non si sentono più urla, non si vedono rabbiosi, e magari alla Coop s’arriva e si torna senza problemi, o si trova qualcuno per sapere se è sicuro uscire. Di certo, nessuno c’è venuto a cercare.
Usciamo sgommando appena c’è spazio per il furgone tra i battenti del cancello, che si chiude praticamente contro il portellone posteriore. Paolino si sta mangiando il labbro inferiore, e guarda avanti, alto, mentre zigzago per evitare i corpi sulla strada, un puzzo di morto che fa male.
Io sento lo stomaco grosso come una nocciola, ma faccio finta di nulla e di non aver paura. “Allora, Paolino, mi raccomando, nel caso ci fossero problemi scappa, torna al furgone, chiuditi dentro e aspettami.” Sorrido a forza “Mi raccomando, non lasciarmi alla Coop”.
Lui risponde solo “Non so guidare bene”, senza smettere di guardare avanti. Non so se essere contento o preoccuparmi. Almeno per strada non c’è nessuno, né rabbiosi né auto, a parte un paio agli incroci, lo sportello del guidatore aperto.
Il parcheggio della Coop invece è pieno. Auto e cadaveri, in pessimo stato entrambi. Sono costretto a passare sopra un paio di donne per salire sul marciapiede e arrivare all’ingresso. Paolino chiude gli occhi e stringe i pugni e i denti. Faccio manovra e entro in retro fino al tornello d’ingresso, lo butto giù e arrivo col portellone praticamente contro il banco della frutta, ormai andata. Per fortuna c’è il lucernario, altrimenti stare in penombra colla puzza di marcio sarebbe stato troppo anche per me.
“Aspetta un attimo ad aprire”.
Non arriva nessuno.
Scendiamo, agguantiamo due carrelli, entrambi già mezzi pieni. “Non prendere niente dai frigo, non guardare i morti, prendi solo scatolette. Io prendo prima le medicine.” Il tizio col diabete la vedrà bigia, che qui non c’è che la parafarmacia, ma ha scorte per un’altra settimana, si starà a vedere.
Paolino butta intere bracciate di scatolame nel carrello, lo riempie , poi corre al furgone e lo svuota sul pianale come una carriola.
Un quarto d’ora di corsa dopo, siamo sudati per lo sforzo e soprattutto per la paura, non ci scambiamo che un “È ancora tutto qui” “Già”. Non aggiungo altro, che Paolino sa cosa intendo: non c’è più nessuno che venga a prendere niente.
Siamo davanti all’Ospizio delle Suore blablabla della blablabla che ancora i barattoli sul pianale non hanno smesso di rotolare. Le suore non vengono ad aprire. Dove cazzo sono?
Alzo gli occhi verso la villa, in cima alla collinetta del parco: alle finestre vedo le vesti grigie delle suore. Perché non vengono? Paolino allunga un braccio e suona il clacson, e mentre suona sento un colpo alla carrozzeria. Nel retrovisore vedo spuntare due rabbiosi. Ho paura, perché negarlo? Sento il loro odore a finestrino chiuso. Tolgo la mano di Paolino dal clacson: “Fermo, se no ne arrivano altri”. “Altri?”. Non li aveva visti, ma quando cominciano a tempestare di pugni il mio sportello Paolino inizia a urlare. Mentre prendo, dopotutto, la giratubi invece del coltello dal cruscotto vedo la Superiora che corre verso il cancello. “Paolino, appena è aperto, entra, poi scendi e aiuta a chiudere.” Apro di botto, tiro un calcio in faccia al primo pazzo e salto giù dal furgone mentre chiudo lo sportello. Paolino prende il volante e guarda avanti, vedo con la coda dell’occhio mentre meno il rabbioso rimasto in piedi. O almeno ci provo. Mi pianta le unghie nella tuta e prova a mordermi.
Gli caccio la giratubi tra i denti, e poi spingo e faccio leva. Si allontana, gli tiro una bella botta alla tempia. Cade. Uno andato. L’altro l’ho di nuovo addosso, e gli allungo un sinistro sul viso che già gli sanguina per il calcio. Cazzo, se fa male anche alla mano! Il motore del furgone sale di giri, e il paraurti sfrega contro il cancello finendolo di aprire. Fanculo. Pianto la chiave prima nello stomaco, poi in faccia allo stronzo. Cade anche lui, mentre urlo “Muori, muori, muori!” Entro di corsa nel parco. Quella testa di cazzo di Paolino chiude tutto assieme alla puttana, e ride di sollievo mentre lo fa, e quella risata goffa mi urta. “Cosa cazzo ridi, stronzo?” gli urlo in faccia mentre lo prendo per il collo. Vedo tutto rosso. Vedo appena che la mia mano sinistra ha le nocche sbucciate e insanguinate. Capisco. “Colpa tua, troia!”, urlo alla puttana di merda senza lasciare andare il mongoloide, “Colpa tua!”. Salto addosso alla puttana, voglio strapparle gli occhi, e subito sento male alla schiena. Due, tre, quattro fitte, maledetto tutto. Mi giro e il mongoloide piange e ha quel cazzo di coltello in mano, rosso e lucido. Cado all’indietro. Il cielo, solo il cielo, in fondo a un tunnel sempre più stretto.

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COM’È:

28 Minuti – 6000 caratteri, versione in concorso

”Madre, i miracoli li faceva solo il su’principale, e l’hanno inchiodato”
La Superiora mi guarda male e non dice niente, ma che cavolo pretendeva dandomi una lista di cose da prendere lunga un braccio e con tanto di nomi dei prodotti?
Sarà già tanto se torneremo, figurarsi se potremo stare a scegliere. Ringrazi che non ci mando lei, a cercare da mangiare per tutti i suoi vecchi, le suore, me e una donna con un ragazzetto Down di una ventina d’anni in visita al nonno.
Ospizio del cazzo. Accidenti a me e quando ho preso il lavoro. Ogni giorno c’è qualche sciacquone che versa, un lavandino intasato e queste suore, tanto brave a chiedermi poi lo sconto con la manina sul crocefisso attaccato al collo, non son buone a versare del disgorgante. E accidenti a quando a lavandino sturato ho accettato il caffè invece di risalire sul furgone, farmi aprire quel cancello e andare a casa.
Invece ho perso tempo a chiamare Michele, chiedere se i Vigili Urbani sapevano qualcosa di quella massa urlante là fuori, che all’inizio pareva una rissa, poi guerriglia che il G8 in confronto erano i papaboys. Telefoni e corrente hanno smesso di funzionare subito dopo, e nessuno sapeva nulla se non che pareva “28 giorni dopo”: rabbia e morti.
Alla fine sono rimasto qui, dietro le mura e il parco dell’ospizio delle Sorelle blablabla della blablabla, che borbottando santissimi e altissimi, segni della croce come se grandinassero, s’eran subito accalcate nella stanza della Superiora, più in alto e dalla parte della strada, a guardare da lontano la gente che scendeva in strada o, peggio, veniva tirata fuori dalle finestre, e veniva ammazzata di botte o si univa a quei pazzi furiosi.
Insomma, usciamo io e il Down, Paolino, che è alto quanto me e largo il doppio, e che magari nel bisogno si sa difendere meglio di me, ma di certo anche se ha insistito per accompagnarmi ha paura e non smette di tremare. Ho saputo praticamente ieri che “mongolismo” non è un’offesa, che il Down varia da caso a caso e che Paolino è quasi e dico quasi normale, e che, quando ha detto che voleva uscire anche lui, sapeva cosa diceva. La su’mamma tanto non fa altro che piangere dall’inizio, mi pare che abbia poca voce in capitolo.
Saliamo sul furgone. Le suore sono al cancello, che devono aprire e soprattutto chiudere velocemente. La cuoca ha nel grembiule un coltello da macellaio, che aveva detto il Cardinale alla radio che i rabbiosi “ormai sono bestie senz’anima ed è un dovere difenderci”. Avevano dato un coltellaccio anche a Paolino, ma poi l’abbiamo scambiato con la mia giratubi grossa, che se si tira in un ginocchio quella si fa meno male; speriamo bene comunque, che da due giorni non si sentono più urla, non si vedono rabbiosi, e magari alla Coop si va e si torna senza problemi, o si trova qualcuno per avere informazioni.
Di certo, nessuno c’è venuto a cercare.
Scattiamo appena c’è spazio per il furgone tra i battenti del cancello, che si chiudono praticamente contro il portellone posteriore. Paolino si sta mordendo il labbro inferiore, e guarda avanti, in alto, mentre zigzago per evitare i corpi sulla strada vuota, un puzzo di morto che fa male.
Se fossimo rimasti solo noi, di normali, sarebbe un bello scherzo. La suora più giovane ha cinquant’anni, e il down non camperebbe da solo mezz’ora.
Se nei film l’uomo resta sempre per ripopolare il pianeta, qui per me butta male.
Sento lo stomaco grosso come una nocciola, ma faccio finta di nulla e di non aver paura.
“Allora, Paolino, mi raccomando, nel caso ci fossero problemi scappa, torna al furgone, chiuditi dentro e aspettami.” Sorrido a forza “Mi raccomando, non lasciarmi là”.
Lui risponde solo “Non so guidare bene”, senza smettere di guardare avanti. Non so se essere contento o preoccuparmi.
Il parcheggio della Coop è pieno. Auto e cadaveri, in pessimo stato entrambi. Sono costretto a guidare sopra un paio di corpi per salire sul marciapiede e arrivare all’ingresso. Paolino chiude gli occhi e stringe i pugni e i denti. Faccio manovra e entro in retro praticamente fino al banco della frutta ormai marcia.
“Aspetta un attimo ad aprire”.
Non arriva nessuno.
Scendiamo, agguantiamo due carrelli. Per fortuna c’è il lucernario, altrimenti stare in penombra con l’odore che c’è sarebbe stato troppo anche per me.
“Non prendere niente dai frigo, non guardare i morti, prendi solo scatolette.”
Paolino riempie il carrello con intere bracciate di scatolame, poi corre al furgone e svuota tutto sul pianale come una carriola, guardandosi intorno spiritato.
Un quarto d’ora di corsa dopo, siamo sudati per lo sforzo e soprattutto per la tensione; non ci scambiamo che un “È ancora tutto qui” “Già”. Non aggiungo altro, che Paolino sa cosa intendo: non c’è più nessuno che venga a prendere niente.
Siamo davanti all’Ospizio delle Suore blablabla della blablabla che ancora i barattoli non hanno finito di assestarsi sul pianale.
Nemmeno mezz’ora in tutto.
Le suore non vengono ad aprire. Dove cazzo sono?
Alzo gli occhi verso la villa, in cima alla collinetta del parco: alle finestre vedo le vesti grigie delle suore. Perché non vengono? Paolino si allunga dalla mia parte, suona il clacson, e mentre suona sento un colpo alla carrozzeria. Nel retrovisore vedo spuntare due rabbiosi. Ecco perché.
Ho paura, perché negarlo? Sento il loro odore anche a finestrino chiuso.
Tolgo la mano di Paolino dal clacson: “Fermo, se no ne arrivano altri”. “Altri?”.
Non li aveva visti, ma quando tempestano di pugni il mio sportello Paolino inizia a urlare. Mentre raccolgo da terra, dopotutto, la giratubi, vedo la Superiora che corre verso di noi.
“Paolino, appena è aperto, entra, poi scendi e aiuta a chiudere.” Apro di botto, tiro un calcio in faccia al primo pazzo e salto giù mentre chiudo lo sportello. Paolino prende il volante e guarda avanti, vedo con la coda dell’occhio mentre picchio il rabbioso rimasto in piedi. O almeno ci provo. Lui mi pianta le unghie nella tuta e prova a mordermi.
Gli caccio la pinza tra i denti, e poi spingo e faccio leva. Si allontana, gli tiro una bella botta alla tempia. Cade. Uno andato. L’altro l’ho di nuovo addosso, e gli allungo un sinistro sul viso che già gli sanguina per il calcio. Cazzo, se fa male anche alla mano! Il motore del furgone sale di giri, e il paraurti sfrega contro il cancello finendolo di aprire. Fanculo. Pianto la pinza prima nello stomaco, poi in faccia allo stronzo. Cade anche lui, mentre urlo “Muori, muori, muori!” Entro di corsa nel parco. Quella testa di cazzo di Paolino chiude tutto assieme alla puttana, e ride di sollievo mentre lo fa, e quella risata goffa mi urta. “Cosa cazzo ridi, stronzo?” gli urlo in faccia mentre lo prendo per il collo. Vedo tutto rosso. Vedo appena che la mia mano sinistra ha le nocche sbucciate e insanguinate. Capisco. “Colpa tua, troia!”, urlo alla puttana di merda senza lasciare andare il mongoloide, “Colpa tua!”. Salto addosso alla puttana, voglio strapparle gli occhi e la gola, e subito sento male alla schiena. Due, tre, quattro fitte, maledetto tutto. Mi giro e il mongoloide piange e ha quel cazzo di coltello in mano, rosso e lucido. Cado all’indietro che ancora urlo.
Il cielo, solo il cielo in fondo a un tunnel sempre più stretto. Cazzo, addio pure al fottuto piane-

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COME AVREBBE POTUTO ESSERE:

28 Minuti – 9205 caratteri, versione ritoccata semidefinitiva: integrata l’ambientazione, corrette delle ambiguità (la stanza “alta” si capisce solo a Firenze, ad es.) e diversi errori, ridondanze e svarioni. Tanti, ma non tutti, temo.

“Madre, i miracoli li faceva solo il su’principale, e l’hanno inchiodato”
La Superiora ci rimane un po’ male e non dice niente, ma che cavolo pretendeva dandomi una lista di cose da prendere lunga un braccio e con tanto di nomi dei prodotti? È già tanto se torneremo, figurarsi se potremo stare a scegliere. Ringrazi che non ci mando lei, a cercare da mangiare per tutti i suoi vecchi.
Ospizio del cazzo. Accidenti a me e quando ho preso il lavoro. Ogni giorno c’è qualche sciacquone che versa, un lavandino intasato e queste suore, tanto brave a chiedermi poi lo sconto sulla chiamata o i materiali con la manina sul crocefisso attaccato al collo, non son buone a versare del disgorgante. E accidenti a quando a lavandino sturato ho accettato il caffè invece di rimontare sul furgone, farmi aprire quel cancello e andare a casa. Almeno saprei che fine hanno fatto tutti, che non si riesce a contattare nessuno da una settimana, da quando è cominciato il casino: i cellulari hanno smesso di funzionare quasi subito, la corrente poco dopo. Invece ho perso tempo a chiamare Michele, chiedere se i Vigili Urbani sapevano qualcosa di quella massa urlante e incazzata spuntata dal nulla fuori dal parco e dal cancello, che all’inizio pareva un litigio di strada, poi una rissa, poi una guerriglia che il G8 in confronto erano i papaboys. “No, ne sappiamo poco anche noi, ma tutta Firenze è così. Pare ’28 giorni dopo’, i colleghi in strada dicono che la gente s’ammazza senza motivo; ma s’ammazza proprio, Simone, te dove sei?, restaci se è il caso”. Insomma, son rimasto qui, dietro le mura e il parco dell’ospizio delle Sorelle blablabla della blablabla, che borbottando santissimi e altissimi, segni della croce come se grandinassero, s’eran subito accalcate nella stanza della Superiora, più in alto e dalla parte della strada, a guardare da lontano la gente che scendeva in strada o, peggio, veniva tirata fuori dalle auto e dalle finestre, e veniva ammazzata di botte o si univa a quei pazzi furiosi. Chiamateli come volete, pazzi, rabbiosi, anche zombie, però a terra ne son rimasti un paio, ghiacciati da un fucile da caccia o da una coltellata allo stomaco, e son cristiani come noi, altro che “solo alla testa”.
Quella sera m’hanno preparato un letto in una stanza dell’ospizio e s’è aspettato.
Per i primi due giorni abbiamo avuto corrente e televisione, e funzionava la cella frigorifera e si vedeva il telegiornale. Il casino pareva partito da via delle Panche o giù di lì, che tra ospedale e istituto farmaceutico militare non sapevano a chi dare la colpa, virus della rabbia, gas da guerra, o quel che era. S’aspettava un intervento dell’esercito, ma non s’è visto nulla.
Ora tocca uscire fuori a trovare qualcosa da mangiare per me, dodici suore, otto pazienti, una parente in visita e un ragazzetto down di una ventina d’anni. Ventitré: il culo. Speriamo.
Insomma, usciamo io e il ragazzetto, Paolino, che è alto quanto me e largo il doppio, e che magari nel bisogno si sa difendere meglio di me, ma di certo anche se ha insistito per accompagnarmi ha una paura che non smette di tremare. Io con lui mi trovo a disagio, che ho saputo praticamente ieri che “mongolismo” non è un’offesa ma un termine medico, che ‘sti poveri ragazzi non possono fare sforzi perché il cuore è quel che è, e che soprattutto il Down varia da caso a caso e che Paolino è quasi e dico quasi normale. Insomma, non mi devo far fregare dagli occhi, e capire che quando ha detto che voleva uscire anche lui sapeva cosa diceva. La su’mamma tanto è lì che piange in camera del su’nonno dall’inizio, mi pare che abbia poca voce in capitolo.
Saliamo sul furgone, svuotato delle mie cose. Le suore sono al cancello, che devono aprire e soprattutto chiudere velocemente. La cuoca ha nel grembiule un coltello da macellaio, che aveva detto il Cardinale alla radio che i rabbiosi “ormai sono bestie senz’anima ed è un dovere difenderci”. Avevano dato un coltellaccio anche a Paolino, ma poi l’abbiamo scambiato con la mia chiave giratubi grossa, che se si tira in un ginocchio quella si fa meno male; speriamo bene comunque, che da due giorni non si sentono più urla, non si vedono rabbiosi, e magari alla Coop si va e si torna senza problemi, o si trova qualcuno per sapere se è sicuro uscire.
Di certo, nessuno c’è venuto a cercare.
Scattiamo avanti appena c’è spazio per il furgone tra i battenti del cancello, che si chiudono praticamente contro il portellone posteriore. Paolino si sta mordendo il labbro inferiore, e guarda avanti, in alto, mentre zigzago per evitare i corpi sulla strada, un puzzo di morto che fa male.
Se fossimo rimasti solo noi, di normali, sarebbe un bello scherzo. La suora più giovane ha cinquant’anni, e il down non camperebbe da solo mezz’ora.
Se nei film l’uomo resta sempre per ripopolare il pianeta, qui per me e il pianeta butta male.
Sento lo stomaco grosso come una nocciola, ma faccio finta di nulla e di non aver paura. “Allora, Paolino, mi raccomando, nel caso ci fossero problemi scappa, torna al furgone, chiuditi dentro e aspettami.” Sorrido a forza. “Mi raccomando, non lasciarmi alla Coop”.
Lui risponde solo “Non so guidare bene”, senza smettere di guardare avanti. Non so se essere contento o preoccuparmi. Almeno per strada non c’è nessuno, né rabbiosi né auto, a parte un paio agli incroci, tutte e due con lo sportello del guidatore aperto.
Il parcheggio della Coop invece è pieno. Auto e cadaveri, in pessimo stato entrambi. Sono costretto a guidare sopra un paio di corpi per salire sul marciapiede e arrivare all’ingresso. Paolino chiude gli occhi e stringe i pugni e i denti. Faccio manovra e entro in retro fino al tornello d’ingresso, lo butto giù e arrivo col portellone praticamente contro il banco della frutta, ormai marcia. Per fortuna c’è il lucernario, altrimenti stare in penombra colla puzza di marcio sarebbe stato troppo anche per me, che una volta ho levato un gatto da uno scarico in cui era stato due settimane. Almeno quello era morto e basta.
“Aspetta un attimo ad aprire”.
Non arriva nessuno.
Scendiamo, agguantiamo due carrelli, entrambi ancora mezzi pieni. “Non prendere niente dai frigo, non guardare i morti, prendi solo scatolette. Io prendo prima le medicine.” Il povero Cenni col diabete la vedrà bigia, che qui non c’è che la parafarmacia, ma ha scorte per un’altra settimana, si starà a vedere.
Paolino riempie il carrello con intere bracciate di scatolame, poi corre al furgone e svuota tutto sul pianale come una carriola guardandosi intorno spiritato.
Un quarto d’ora di corsa dopo, sudati per lo sforzo e soprattutto per la tensione, non ci scambiamo che un “È ancora tutto qui” “Già”. Non aggiungo altro, che Paolino sa cosa intendo: non c’è più nessuno che venga a prendere niente.
Siamo davanti all’Ospizio delle Suore blablabla della blablabla che ancora i barattoli sul pianale non hanno finito di assestarsi. Nemmeno mezz’ora in tutto.
Le suore non vengono ad aprire. Dove cazzo sono?
Alzo gli occhi verso la villa, in cima alla collinetta del parco: alle finestre vedo le vesti grigie delle suore. Perché non vengono? Paolino si allunga dalla mia parte e suona il clacson, e mentre suona sento un colpo alla carrozzeria. Nel retrovisore vedo spuntare due rabbiosi. Ecco perché.
Ho paura, perché negarlo? Sento il loro odore a finestrino chiuso. Tolgo la mano di Paolino dal clacson: “Fermo, se no ne arrivano altri”. “Altri?”. Non li aveva visti, ma quando tempestano di pugni il mio sportello Paolino inizia a urlare. Mentre raccolgo da terra, dopotutto, la giratubi, vedo la Superiora che corre verso di noi.
“Paolino, appena è aperto, entra, poi scendi e aiuta a chiudere.” Apro di botto, tiro un calcio in faccia al primo pazzo e salto giù mentre chiudo lo sportello. Paolino prende il volante e guarda avanti, vedo con la coda dell’occhio mentre picchio il rabbioso rimasto in piedi. O almeno ci provo. Lui pianta le unghie nella tuta e prova a mordermi.
Gli caccio la chiave tra i denti, e poi spingo e faccio leva. Si allontana, gli tiro una bella botta alla tempia. Cade. Uno andato. L’altro l’ho di nuovo addosso, e gli allungo un sinistro sul viso che già gli sanguina per il calcio. Cazzo, se fa male anche alla mano! Il motore del furgone sale di giri, e il paraurti sfrega contro il cancello finendolo di aprire. Fanculo. Pianto la chiave prima nello stomaco, poi in faccia allo stronzo. Cade anche lui, mentre urlo “Muori, muori, muori!”. Entro di corsa nel parco. Quella testa di cazzo di Paolino chiude tutto, assieme alla puttana, e ride di sollievo mentre lo fa, e quella risata goffa mi urta. “Cosa cazzo ridi, stronzo?” gli urlo in faccia mentre lo prendo per il collo. Vedo tutto rosso. Vedo appena che la mia mano sinistra ha le nocche sbucciate e insanguinate. Capisco. “Colpa tua, troia!”, urlo alla puttana di merda senza lasciare andare il mongoloide, “Colpa tua!”. Salto addosso alla puttana, voglio strapparle gli occhi e la gola, e subito sento male alla schiena. Due, tre, quattro fitte, maledetto tutto. Mi giro e il mongoloide piange e ha quel cazzo di coltello in mano, rosso e lucido. Cado all’indietro che ancora urlo. Il cielo, solo il cielo, in fondo a un tunnel sempre più stretto.
Cazzo, addio pure a ‘sta merda di piane-

Vi state chiedendo come mai…

…non scriva più il mio racconto a puntate?

Lo sto ancora scrivendo.
Mi sto documentando; non voglio che sia un trattato, ma vorrei evitare sfondoni spaventosi.
Sto studiando scrittura creativa.
Ho scaricato l’ottimo yWriter5 per la stesura di testi, e ho convertito tutto quello che ho scritto finora, trovandoci errori e buchi, che sto correggendo e riempiendo.

Pazientate. Sto lavorando per me come per voi, miei quattro lettori.

18

L’uomo -ma no, non era un uomo, doveva ricordarselo- sul quale Giorgio aveva puntato il fucile si pass la mano sulla fronte, tocc appena il punto visibile solo nel display e poi si guard la mano, come se credesse di vedersela macchiata dalla luce del laser. A Giorgio occorse una frazione di secondo per realizzare che non poteva essere possibile. Il puntatore era invisibile, appunto, senza opportuni apparecchi. Avrebbe capito se qualcuno avesse provato a scattare una fotografia con una macchina digitale, o avesse inquadrato l’oratore con una videocamera: sarebbe stato come quando con gli stessi si inquadra un telecomando in funzione: la matrice dell’apparecchio rileva frequenze che l’occhio non raggiunge.
Quando l’uomo, dicendo qualcosa che per Giorgio era inaudibile, si volt a guardare fuori dalla finestra, e quando per una frazione di secondo lo sguardo incroci quello di Giorgio, quest’ultimo realizz d’essere stato scoperto. Stacc il pi rapidamente possibile il cavo che dal suo corpetto andava al fucile e lasci andare l’arma senza preoccuparsi di reggere il treppiede. Il peso improvvisamente fuori centro scalz uno dei piedini dal terreno e fece cadere il tutto a terra. Prima che si udisse il frusco delle foglie e il tonfo attutito, Giorgio aveva gi sganciato dall’armatura anche il peso inutile delle batterie e delle formelle di ghiaccio, e iniziato a correre verso l’auto con la quale era venuto. Non vide i battenti della finestra chiudersi.

Senza scambiarsi una parola, quattro dei convitati scattarono in piedi all’unisono mentre Sabrina chiudeva i battenti in legno della finestra. Dopo il Bolli nessuno aveva nemmeno voltato lo sguardo a cercare nell’oscurit: il cecchino aveva avuto solo quella frazione di secondo per comprendere di essere stato scoperto e sparare. Evidentemente non gli era bastata, cap Bruno, che si alz con un minimo scarto temporale dopo i commensali. Con un balzo raggiunse i quattro mentre uscivano dalla porta principale. Istintivamente, cap che era la caccia a un predatore che ormai doveva aver abbandonato l’arma per fuggire pi in fretta.

Giorgio aveva bisogno di tutto l’equilibrio e la concentrazione possibile per correre via senza cadere o inciampare, sbilanciato e disorientato come era dal peso dell’armatura, dalla visione leggermente distorta dell’oculare a intensificazione luminosa e soprattutto, da un genuino terrore. Sapeva che lo stavano rincorrendo o, peggio, che lo stavano cercando con sistemi notturni, probabilmente armati. Spinto dall’adrenalina che quest’ultimo pensiero gli aveva infuso, acceler ulteriormente la corsa.

Bruno corse fuori insieme agli altri. Solo il primo ad uscire dall’abitazione aveva avuto un piccolo scarto laterale in corsa a prendere una specie di corta spada, poco pi di un pugnale, da una panoplia appesa al muro della stanza d’ingresso, come se la sua massa, peraltro abbastanza imponente, non impedisse manovre repentine.
Si diressero rapidi verso il lato della casa con la finestra adesso chiusa, in un giro largo. A qualche metro alla loro sinistra, pi vicino alla costruzione, videro contro un albero la zampa puntata ad angolo acuto verso il cielo di un treppiede fotografico, e intuirono la forma di un fucile. Il primo del gruppo agit la spada in un arco verso destra. Gli altri, affiatati e istruiti sul segnale, si divisero senza una parola in un raggio di sessanta gradi in quella direzione. Solo allora Bruno, per la prima volta confuso, si chiese Cosa sto facendo io qui?. Ignor la domanda con una conscia preoccupazione e senso di inadeguatezza, lasci che l’indignazione per quello che era successo al Bolli prevalesse, e corse anch’egli ad allargare il raggio della ricerca.

Giorgio non osava rallentare per abbassare lo sguardo a cercare in vita, con le mani rese meno sensibili dai guanti, lo walkie-talkie, ma dovette comunque farlo quando l’azione di stantuffo delle braccia venne a mancare. Trov alla cieca la trasmittente e la sganci con forza dalla cintura, rompendone la clip che la teneva ferma. Per un miracolo e con la forza dalla disperazione, ma non senza un tuffo al cuore, riusc a non farsela sfuggire di mano. La port vicino alla bocca e, nonostante l’ingombro della maschera gli impedisse la contemporanea vicinanza all’orecchio e quindi la certezza di una risposta, premette il tasto di chiamata e trasmissione. Ansim dentro il microfono “Mi hanno scoperto. Metti in moto e stai pronto a correre”. Quanto mancava, ancora?

Bruno pi che correre saltava da una gibbosit del terreno all’altra. La luce della luna era pi che sufficiente per evitare di inciampare nelle radici pi grosse mentre scendevano verso la strada. Pi che vederli o udirli, percepiva gli altri che accanto e pi avanti di lui, sempre pi distanti, facevano lo stesso. Il cecchino, ancora invisibile a Bruno per via degli alberi, aveva diversi secondi di vantaggio, ma i compagni di caccia sembravano addirittura non toccare il terreno e stavano rapidamente recuperando. Bruno non sapeva cosa avrebbe fatto, anzi, cosa avrebbero fatto se e quando fossero riusciti a raggiungerlo, ma la febbre della corsa e della caccia rendevano questo dubbio insignificante. Gi pregustava un balzo in avanti e un placcaggio. “Incosciente” si disse, “e se ancora armato?” e si rispose con una scrollata di spalle mentale.

Giorgio os voltarsi per una frazione di secondo. Non vide niente di definito, neppure con l’apparato di visione notturna, ma la semplice percezione, ancora nel fitto degli alberi, di un movimento, lo spinse a spremere ancora di pi le forze che gli stavano progressivamente calando. “Quanto cazzo lungo un chilometro?” pens, disperato, una frazione di secondo prima di rompere con il petto una barriera di cespugli e finire con i piedi nel vuoto.

Bruno vide il suo compagno armato tagliargli la strada in diagonale una ventina di metri avanti, la lama che brillava a sprazzi mentre oscillava assieme al braccio durante la corsa. Lo stesso stavano facendo gli altri tre, seguendo colui che doveva aver individuato l’oggetto dell’inseguimento. Bruno non poteva correre pi veloce, o almeno cos credeva, ma si accorse di star recuperando terreno, e che gli si era allargato un sorriso.

Il salto fu di una quarantina di centimetri, ma a quella velocit corse il rischio di cadere quando il piede tocc l’asfalto. Per fortuna Giorgio riusc a mantenere l’equilibrio e a perdere appena un paio di passi prima di ristabilizzarsi; ancora per maggior fortuna, nella discesa a rotta di collo era riuscito a mantenere quasi del tutto la direzione giusta, uscendo dagli arbusti e cadendo sulla strada, pi bassa del bosco, a meno di venti metri dall’auto di Leonardo, parcheggiata nello slargo di una curva, accanto all’armadio Telecom gi richiuso. Le luci di posizione e i fari erano spenti, ma uno sportello posteriore era aperto. L’auto -non riusc a stabilirlo se non negli ultimi metri di forsennata corsa- era in moto.

Bruno ebbe appena un secondo o due per capire come fosse sparito l’uomo davanti a lui prima di trovarsi tra gli arbusti che ancora non avevano smesso di oscillare. Qualche leggero graffio e un respiro saltato dopo, atterrava sulla strada. Alla sua destra, l’uomo col pugnale era a meno di dieci metri da un tizio con una strana attrezzatura nera addosso.

Giorgio non si volt di nuovo: aveva sentito i fruscii seguiti da tonfi di altri che saltavano dal bosco nella strada, e lo scalpicco feroce sull’asfalto. Quelle creature che non aveva il coraggio di guardare stavano per ghermirlo. L’auto si mosse, voltando in modo da rivolgergli lo sportello aperto a meno di cinque insuperabili metri.

L’uomo in nero si butt come un pesce nell’auto che gi stava partendo, steso sul sedile posteriore. Lo sportello si chiuse per inerzia mentre l’auto prendeva velocit. L’uomo col pugnale e Bruno tentarono uno scatto, ma le energie erano state gi spese in abbondanza, e non c’era altro margine. L’auto prese velocit e distanza, e spar.
I due smorzarono l’abbrivio finendo col respiro corto e chini con le mani sulle ginocchia l’uno accanto all’altro. “Targa?” chiese tra una inspirazione e l’altra l’uomo col pugnale. “No” rispose Bruno. “Coperta”, ebbe la forza di rispondere prima di tornare ad ammortizzare il debito d’ossigeno. Infatti quando aveva cercato di leggere il numero, aveva visto che una striscia argentata di nastro americano lo copriva. Ancora ansimanti, fecero dietro-front e si congiunsero agli altri per far ritorno alla casa.

17

Giorgio poggi la spalla contro il tronco dell’albero, a non pi di una quindicina di metri dalla finestra illuminata. Attraverso le sbarre di ferro tipiche di quel tipo di costruzione, vedeva una dozzina di persone a cena. Sembravano pericolosi quanto la riunione di un circolo filatelico, ma non era a lui che spettava quel tipo di giudizio. Si discost appena dal fusto e in pochi secondi estese ed allarg le zampe telescopiche di un treppiedi fotografico in alluminio. Ne affond di qualche millimetro i piedini gommati nel terriccio perch avessero una tenuta migliore, e agganci, al posto di una macchina fotografica, un supporto girevole ad “U” simile a quello dei telescopi panoramici. In quest’ultimo innest, a sua volta, il fucile che aveva tenuto in spalla. Azion un piccolo interruttore e mise in funzione il mirino del fucile. Un raggio laser infrarosso, invisibile ad occhio nudo, era entrato in funzione. Colleg un cavetto dal fucile alla maschera e lo schermo davanti all’occhio destro ripet l’immagine in toni di verde catturata dall’ottica del mirino. Mosse lentamente il fucile, e il punto altrimenti non percepibile del puntatore laser si spost nella stanza da un volto all’altro senza che i convitati se ne accorgessero e lasciando invece una leggera scia evanescente nel piccolo monitor. Regol la resistenza al movimento del cavalletto per stabilizzare il laser, anche se a quella distanza le vibrazioni sarebbero state ininfluenti e spost, finalmente, il punto in mezzo alla fronte dell’uomo che in quel momento stava parlando.

“Dalla tua espressione direi che ci ho azzeccato. No, Bruno, questa non telepatia, non ti ho letto nel pensiero. Ho solo seguito la catena dei tuoi pensieri per una dozzina di secondi, secondo i tuoi sguardi e movimenti. Non difficile per me e non lo sar per te fra qualche decina d’anni, quando avrai un po’di pratica. Ognuno di noi in grado di, diciamo cos, vedere gli schemi dietro agli eventi e ai comportamenti delle persone. Molti di noi sono psicologi affermati, esercitando la professione vent’anni alla volta, programmatori, investigatori, e anche architetti, ingegneri… ovunque ci siano dinamiche nascoste, noi abbiamo un vantaggio nello scoprirle ed eventualmente correggerle. Siamo stati “progettati” apposta. Si, progettati. Siamo stati schiavi destinati alla costruzione di opere immense. Abbiamo costruito piramidi in tutto il mondo per conto di Dio millenni prima di quando ritengano gli scienziati di oggi, abbiamo alzato la Torre di Babele e scavato l’Inferno, diffuso la stampa prima e Internet oggi, istruito Leonardo da Vinci in arti che suoi tempi erano state dimenticate, assistito Tesla e Einstein. No, non erano dei nostri, non ci siamo mai potuti permettere di arrivare tanto allo scoperto e, onestamente, non eravamo pi avanti di loro nei loro campi. Ci permettiamo al massimo di suggerire qualche punto di vista teorico, qualche intuizione. Ormai il mondo ci ha raggiunti, e la nostra spinta agli umani quella di un compagno di corsa che incita e, magari, indica qualche buca da evitare per non farsi male. A Leonardo avevamo insegnato la fotografia, molta chimica e anche quel po’ di elettrostatica che avevamo appreso nei millenni di schiavit.”
Bruno era tanto perplesso da non riuscire nemmeno a decidere se protestare per le domande che gli venivano anticipate prima che riuscisse a formularle, o per le informazioni che i monologhi del Bolli gli fornivano e che contrastavano con quello che lui aveva sempre saputo, o creduto di sapere, e le mille altre domande che queste aprivano.
“Bruno,” riprese il Bolli, “so che non facile seguire e comprendere quel che ti dico. Il quadro cos ampio e cos antico che molti particolari sono offuscati dal tempo anche per noi. Il vederlo nel suo insieme comunque difficile, soprattutto se te l’hanno sempre descritto in maniera diversa. Sopporta i miei monologhi sui dettagli…” Sbuff, si pass una mano sulla fronte. “Va bene, aspetta. Vado avanti con la metafora. Questo quadro la storia dell’umanit, ma a te, come al resto del mondo, hanno sempre tenuto coperte molte parti, hanno descritto in molti casi un personaggio per un altro. Noi invece c’eravamo quando stato dipinto, o abbiamo parlato in prima persona coi molti pittori, e sappiamo molti dei veri significati. No, non sappiamo tutto nemmeno noi, l’umanit pi antica di quanto ci sia scritto nei libri di storia. Tutta la parte presumerica sotto un velo, ed la parte pi importante, tanto che comunque giunta ai giorni nostri sotto forma di mito. Sono esistiti No, Art e Gilgamesh, abbiamo costruito e abbandonato Teotihuacan secoli prima che i vichinghi tornassero in America. Abbiamo citt seppellite sotto i ghiacci polari da millenni… o almeno cos ci dicono i nostri fratelli che hanno parlato con coloro che ci hanno vissuto. Eppure, noi siamo Satana e Prometeo, siamo vampiri e Illuminati, Templari e il Priorato di Sion… Ti faccio solo un esempio. Pensa al mito di Babele e quello di Icaro. Cosa hanno in comune?”
Bruno rispose immediatamente “Il desiderio di raggiungere il cielo, la rovinosa caduta come punizione”
“Esatto. Ovviamente la Torre di Babele non era progettata per raggiungere davvero la stratosfera, e Icaro non era un giovinetto con ali di cera. Pensiamo ci fosse una specie di piattaforma di lancio o forse anche di antenna, non abbiamo certezze. Sappiamo che altri dei ne impedirono la costruzione prima che fosse completa, l’abbatterono e impedirono che “i cieli fossero raggiunti”. Sappiamo per certo che la confusione delle lingue fu in realt la privazione di alcuni poteri telepatici che avevamo e che per ci restano in maniera molto, molto blanda, soprattutto a livello empatico. E Icaro, schiantato a terra dal potere del sole, non si rialz pi.
Si, lo so, ti ho nominato gi Dio, Satana e diversi dei. Purtroppo nei miti, e nel quadro, hanno ruoli confusi. A volte l’uno dipinto con la faccia dell’altro, gli eventi sono mescolati, ma, beh, nei secoli ci siamo fatti un’idea piuttosto precisa anche di quello a cui non abbiamo assistito.” Si pass di nuovo la mano sulla fronte, poi se ne guard perplesso il dorso.
Prima che Bruno o chiunque altro potesse intervenire nel discorso, Bolli guard verso la finestra, focalizz lo sguardo nell’oscurit e le fronde circostanti l’abitazione e disse “Ho un laser infrarosso puntato in fronte da qualche minuto. Se un mirino, non so perch non mi hanno gi sparato”

(17 – continua)

16

Il coltello affond nella carne, segandola con i minuscoli denti e facendone uscire i succhi di cottura.
Ovviamente o quasi, il piatto principale era fiorentina molto poco cotta, la migliore che Bruno avesse mai mangiata. Si chiese se il segreto di tanta bont fosse lo spesso vassoio di pietra ancora calda sul quale erano state servite.
S’era fatto un silenzio quasi sacrale, a malapena rotto dal rumore delle posate e della masticazione, e il lungo tavolo di legno e la luce data solo dalle peraltro numerose candele sparse per la stanza contribuivano a creare l’atmosfera di un refettorio di una qualche comunit religiosa.
Bruno se la stava godendo, ormai. Inutile insistere nel farsi spiegare tutto e subito. Era stato invitato a una cena, dopotutto, e tanto valeva mangiare. Di certo molti dei presenti, se non tutti, avevano gi fatto le stesse domande che aveva fatto lui, avevano avuto le stesse risposte ed erano stato altrettanto confusi. Certo, se Bruno aveva intuito il giusto, qualcuno di loro poteva averlo fatto secoli prima in una lingua ormai dimenticata, ma il risultato non cambiava: non era pi gente abituata a fare le cose in fretta se non in caso di emergenza, e la loro efficienza nell’occasione dell’incidente d’auto la diceva lunga sulle loro reali capacit organizzative e risorse in certe situazioni. L’incalzare il Bolli, o chiunque altro, affinch gli raccontasse in pochi minuti magari millenni di avvenimenti, beh, era solo sciocco.
Sorseggi il vino rosso che era stato gi disposto in dei decanter quando avevano fatto il loro ingresso nella sala. Le bottiglie vuote poggiate vicino ai decanter, scure e impolverate, non avevano etichetta. Bruno non prov nemmeno ad immaginare o dedurre se e quanto quel vino potesse essere invecchiato; le bottiglie non rivelavano abbastanza, e come sommelier o intenditore lui non andava lontano.
Questa era gente che aveva tutto il tempo del mondo e se lo godeva. “Beh,” si disse “anche io, no?”, anche se il pensare a se stesso come un membro di quella societ, un membro elettivo, per di pi, ancora gli risultava innaturale. Per anni era stato un altro, banale, con un qualcosa che richiedeva tante attenzioni come una malattia richiede cure, tanto da risultare pi un fastidio che un vantaggio… e poi scopriva di essere non malato, non banale, ma qualcosa di strano, migliore, per certi versi superiore. Temeva che se non avesse affrontato la vicenda in modo distaccato, avrebbe cominciato a ritenersi un essere superiore, membro di una razza eletta, magari un predestinato, un Magneto dei poveri. Per fortuna il riferimento a Hitler fatto dal Bolli poco prima aveva toccato le corde giuste, e aveva messo in allerta il senso etico e morale di Bruno sul pericolo dell’autoesaltazione. Bruno si chiese se c’era mai niente di casuale in ci che quella gente, la sua gente, faceva. La risposta venne subito: ovviamente no. Non poteva esserci. Avevano avuto tutto il tempo per fare tutte le prove ed errori, ed imparare a far tutto nel miglior modo possibile.
Continu a sezionare diligentemente la fonte di ferro che aveva nel piatto. Il pepe nero sopra non ci sarebbe stato male, e dei fagioli a fianco avrebbero fatto una gran figura, ma la bistecca era squisita di per s, ed era una fonte molto pi gradevole di quegli alimenti e anche della crusca, del frumento o di milza o fegato, che aveva imparato essere pi ricchi di quel metallo.
“Non solo una questione di quantit, Bruno,” puntualizz il Bolli, “ma anche del tipo di ferro presente, e di assimilabilit. Ci sono anche un altro paio di elementi significativi. Niente di necessario, ma quando c’ meglio”
“Immaginavo” rispose Bruno ripensando al malconcio, pi volte fotocopiato e praticamente imparato a memoria, foglio datogli dal Bolli con la dieta da seguire, ormai vent’anni prima “visto anche quel che mi ha detto ai tempi. Grazie”
Aveva quasi ricominciato a mangiare quando realizz quel che era appena successo, e sgran gli occhi all’indirizzo del Bolli che faceva fatica a non allargare un sorriso divertito.

-16 – continua. presto, stavolta-

15

La notte era calda, e l’essersi messo un mefisto certo non l’aiutava a stare meglio. Le placche di kevlar che gli aveva applicato e che lo facevano sembrare una via di mezzo tra un predator, un nero teschio dalle suture mal saldate e uno degli Immortali di “300” davano il colpo finale, impedendo quasi del tutto la traspirazione.
Eppure, non poteva toglierselo, se non voleva essere correre il rischio di essere visto attraverso le finestre o una telecamera. Le celle di Peltier su ogni placca del viso e dell’armatura, che prima di venire modificata era un banale completo leggero da motocross, impedivano che il suo calore corporeo si alzasse sopra quello ambientale. Era invisibile all’occhio nudo e ai rilevatori di calore. Per quello aveva scelto quella notte, affinch la differenza tra il suo calore e quello circostante fosse meno elevata possibile, in modo da contenere il lavoro delle celle e il calore intrappolato sotto la tuta da un sistema di raffreddamento autocostruito che comprendeva, tra l’altro, quello di una scheda grafica per pc e delle mattonelle di ghiaccio sintetico per campeggio.
Era riuscito, con gli avanzi di un videofonino altrimenti irrecuperabile, a realizzare una via di mezzo tra un intensificatore luminoso e un visore a infrarossi, e l’aveva applicato all’occhio destro della maschera.
Era stato pi difficile trovare la distanza giusta dall’occhio e costruire con metallo e resina un supporto stabile che non facesse trapelare la luce dello schermo, che tutto il lavoro di sagomatura e applicazione delle placche di kevlar. Ovviamente, una volta trovato qualcuno che rivendesse le fibre e la resina necessarie, Schmidt. Per la realizzazione aveva solo ricoperto colla fibra gli opportuni punti del completo da moto e di una normalissima maschera, e aveva versato la resina. Aveva poi diviso la maschera in diversi pezzi -zigomi, mento, fronte, guance- per poter mantenere un minimo di flessibilit.
Il peso del pacco batterie e delle mattonelle di ghiaccio necessarie al funzionamento del sistema di raffreddamento era distribuito sulla schiena, grazie allo zainetto che conteneva il resto dell’equipaggiamento, e quindi non gli impacciava in alcun modo i movimenti nella boscaglia.
Giorgio avanzava lentamente, un quarto di passo per volta, in modo da poter sia scovare eventuali trappole che minimizzare la possibilita’ di essere rilevato da un sensore di movimento. Non sapeva a cosa andava incontro, e aveva cercato di pensare a come lui stesso avrebbe protetto il suo obbiettivo. All’aperto, sensori di movimento troppo sensibili o fotocellule, a rischio di falsi allarmi per via dagli animali, visto che era zona quantomeno da cinghiali, erano controindicati. Era pi probabile che avrebbe incontrato recinzioni o telecamere con sorveglianza umana, ed era per quello che aveva mirato anche alla difesa passiva, quando aveva stilato i disegni di quell’armatura.
I soldi non erano stati un problema, Leonardo glielo aveva detto subito, che l’unico accorgimento da seguire era la riservatezza. Era solo per quella che aveva preferito l’autocostruzione, ed era solo per quello, probabilmente, che Leonardo aveva scelto lui per quella missione: perch era in grado di costruire da solo quanto gli fosse servito, senza lasciare in nessun posto, fisico o virtuale, tracce di acquisti sospetti.
Giorgio era portato per il problem-solving, come dicevano gli anglofoni aziendali. In azienda si era fatto notare per quello, per riuscire sempre a trovare la soluzione pi semplice e conveniente per qualsiasi problema. Riusciva a ricordare le competenze e anche gli interessi extralavorativi di ogni tecnico o impiegato, e sapeva sempre a chi rivolgersi per un aiuto nella soluzione di qualsiasi problema gli venisse proposto.
Quindi, quando Leonardo l’aveva chiamato nel suo ufficio, si aspettava di dover risolvere un guasto alla rete, al PC o a chiss che cosa. Invece, con poche parole questi lo aveva messo al corrente di quello che gi sospettava: c’era una cospirazione in atto, per prendere il dominio mondial, e toccava a pochi elementi dalle qualit particolari impedire che la parte sbagliata vincesse. I nemici tramavano nell’ombra, si nascondevano tra gli altri. Da millenni, diceva Leonardo. Poco meno che demoni, erano devianti genetici e mentali. Erano malati di irsutismo, porfiria, paranoia e malattie mentali varie, erano convinti di essere superiori al resto del genere umano. Il problema era che, per “difendersi” da una eventuale estinzione ad opera degli “umani invidiosi”, troppo spesso attaccavano per primi. Nei secoli avevano sparso epidemie, scatenato guerre, eresie e persecuzioni religiose.

Adesso toccava a loro due, grazie a Leonardo che ne aveva scoperto le mire e i luoghi di riunione, trovare un modo di fermarne i piani pi sanguinari. Lui avrebbe aspettato, con uno scanner cellulare poggiato sul cruscotto, e un analizzatore di protocollo e uno telefonico in parallelo al doppino telefonico, accanto all’armadio ripartilinea, aperto per l’occasione e lasciato accostato con solo il cavetto tra i battenti, a meno di un chilometro a valle. Giorgio aveva trovato i piani per un apparecchio in grado di inserire su una linea telefonica valori di impedenza e capacit tali da simulare lo sgancio della cornetta. Il telefono non trillava, ma il microfono veniva attivato. Ne aveva appreso l’esistenza in un romanzo, aveva trovato gli schemi per le specifiche statunitensi, aveva adattato i valori, l’aveva provato al proprio ripartilinea, verso il proprio telefono; aveva identificato i contatti relativi tra le centinaia chiamando il numero di casa e passando un tester in cerca della tensione di chiamata. Ovviamente, il tutto nottetempo, parcheggiando un’auto col portapacchi ingombro davanti all’armadio per nascondersi dagli sguardi di passanti meno che distratti. Purtroppo, lo stesso sistema non aveva funzionato per il telefono della villa alla quale si stava avvicinando srasera. Avevano identificato i contatti con una telefonata a vuoto due settimane prima, ma il sistema di ascolto non funzionava: o i devianti avevano protetto in qualche modo le loro linee, o quello che riproduceva i valori di impedenza e capacit di un impianto telefonico era in realt qualcos’altro. Giorgio non aveva avuto modo di sperimentare anche il sistema di discriminare un modem o un sistem adsl. Pertanto, avrebbero studiato in seguito quello che passava su quella linea, una volta terminato quel blitz. Un passo alla volta.

Un passo alla volta. Anzi, meno. Mezzo, un quarto di passo. Prese come meta la fievole luce che filtrava attaverso le imposte di una finestra, sistem meglio il fucile di precisione a tracolla, e continu ad avanzare.

14b

-Ecco, adesso lo so-, disse Bruno, rassegnato -tutto questo, non so come, solo un colossale scherzo alle mie spalle. Ma come, prima mi dite che mi viene rivelato un briciolo alla volta perch altrimenti non potrei crdere, e poi viene fuori che siamo creature del male, in lotta da millenni contro Dio, e io dovrei accettarlo senza problemi? Solo una cosa voglio sapere: perch a me? Se non fosse per il fatto che effettivamente SO che il mio sangue, o forse tutto il mio corpo, speciale, crederei a una truffa per spingermi a fare chiss che.-
-E invece no, Bruno- stavolta tocc al Bolli -niente truffa, niente sette di assassini che ti convincono di essere un superuomo investito di una missione divina. E no, non siamo nemmeno creature del male. Per davvero lottiamo contro Dio, o quello che comunque tu riterresti tale, na non siamo noi che attacchiamo. Noi ci limitiamo a difenderci. Siamo i suoi figli dei primi giorni, i discendenti di coloro che aveva posto nel giardino dell’Eden e poi cacciato, condannati ad imbastardire tra i ‘figli dell’uomo’ da Caino in poi. Siamo un pericolo per lui e per il mondo creato per servirlo ed adorarlo, e dobbiamo essere sterminati. Se combattere per la propria sopravvivenza essere ‘creature del male’, allora lo siamo.-
Bruno era a dir poco ammutolito, quasi tanto quanto il Bolli pareva seccato. Balbett: -Non volevo essere offensivo, non intendevo in quel senso…-
-Nessun problema- sorrise l’altro -basta che tu stesso non ti senta mai nemmeno per un istante dalla parte del Male, con la maiuscola. Se il Demonio esiste, in diversi millenni ancora no l’abbiamo incontrato; invece Dio cerca di sterminarci fin troppo spesso-
-Sono ateo dalla prima Comunione in poi, credo, ma mi pare di ricordare che Dio fosse onnipotente e onnisciente. Come mai non siete… siamo… estinti, se davvero lui che ci minaccia?-
-Per fortuna ha dalla sua dodicimila anni di miti, pi che una effettiva onnipotenza. E poi sta invecchiando, passa la maggior parte del suo tempo ad archiviare e a raccogliere le forze. Non incendia pi roveti, non ha pi la forza di far credere a due eserciti che il sole abbia invertito il suo corso nel cielo. Si deve limitare a dare piccoli colpi a piccole pietre che possano causare grandi frane. Rende estremamente persuasivi un pittore austriaco e un maestro di scuola italiano, cambiamenti minimi delle aree del cervello dedicate al linguaggio, e il mondo scende in guerra. Suggerisce a un altro ometto l’idea della razza pura, e inizia una sperimentazione su cavie umane che se fosse andata avanti avrebbe portato in poco tempo a mezzi definitivi per sterminarci, per eradicare i nostri geni e la nostra cultura. Non che scegliendo di sterminare il ceppo etnico nel quale siamo piu’ numerosi non ci abbia dato un duro colpo, ma con l’Inquisizione aveva fatto di meglio, anche se aveva fatto pi fatica. Adesso pu agire in misura ancora pi ridotta sul piano fisico, per il mondo diventato a sua volta molto pi piccolo, Dio non ha perso il suo vantaggio.-
-Continuo a non capire un accidente. Mi mancano gli antefatti, temo. E che la Seconda Guerra Mondiale sia stata combattuta per uccidere… beh, me, un bel boccone da buttar gi.-
-Infatti, Bruno.- intervenne Pietro -Adesso ceniamo, per. Proseguiremo dopo.-

(14b-continua)

14

E silenzio.

Il tizio davanti a lui lo guardava con l’espressione di chi ha gi parlato abbastanza, ma con gli occhi divertiti di chi fa una battuta tra iniziati.

Non un fiato, da nessuno, per diversi secondi.

-Va bene, basta- disse Bruno – Mi arrendo. Accidenti a me se vi faccio qualsiasi altra domanda econtinuo a fare la figura del… del… cretino, ecco. O le cose me le spiegate, visto che io qui sono DAVVERO l’ultimo arrivato, oppure posso anche andare a casa davanti a SuperQuark, che di sicuro mi diverto e ci capisco di pi. E il Bolli che mi dice le cose un po’ per volta, e voi che mi parlate di, cosa sono, feste celtiche?, e date per scontato che io sappia… sono stanco, davvero. Il Bolli mi ha detto che oggi, qui, avrei avuto diverse risposte. Io chi ho creduto, e sono qui. Ho fatto male?

Pietro? Pietro. Pietro alz appena un sopracciglio e l’angolo della bocca corrispondente in quello che doveva essere il tentativo di un sorriso compassato. Un tentativo fallito.

-Tranquillo, Bruno, le avrai. Supponevo che tu avessi immaginato di pi, e credevo che stasera avresti avuto pi conferme che risposte. Mi sbagliavo. –

Attese che Bruno allentasse l’espressione risoluta, poi riprese: -Cominciamo dalla fine: Farvardin l’inizio dell’anno persiano. Quella celtica Eostar. Il 21 marzo del calendario che si osserva oggi corrisponde all’equinozio di Primavera, ovverosia l’inizio della vittoria della luce sul buio, del giorno sulla notte, e cos via. Noi lo festeggiamo da prima che assumesse i suoi nomi. La tua prossima domanda “NOI chi?”, vero?-

Bruno annu. -E certo!-

– Noi, punto. Non abbiamo un altro nome. Siamo esseri umani. Lascia perdere il fatto che nei secoli siamo stati cacciati e scacciati dai nostri simili, che abbiano inventato miti e leggende e girato film su di noi… Siamo esseri umani. Viviamo di pi, siamo pi forti, magari utilizziamo meglio la nostra mente, ma siamo esseri umani. Non siamo vampiri, lupi mannari, o quant’altro, altrimenti ci saremmo estinti da molto tempo.

– Ma le staminali nel sangue… il ferro…

– Ecco si, il distinguo quello. Siamo esseri umani, ma siamo diversi, innegabile. Funzioniamo meglio. E per quello spaventiamo coloro che possono fare un po’ meno. Ma non colpa nostra.

Bruno annu, ancora. Filava. Ma…

– Non mi state dicendo tutto, lo stesso.

– No. Infatti. Tutto assieme sarebbe troppo da assimilare. Per quanto tu sia di mente aperta, non crederesti a tutto. Lo facciamo per te. Per fidati: tutto quello che hai saputo sinora vero: la longevit, la rigenerazione, la Lotta, il ferro…

Bruno lo interruppe -Quale lotta?

Pietro guard il Bolli con aria interrogativa.

Questi disse solo: – L’ho lasciato vivere tranquillo finch ho potuto. Alla prima avvisaglia, l’avrei avvertito.

Bruno raggel. Una Lotta nella quale una parte era costituita da esseri immortali e nella quale poteva essere coinvolto anche lui. Aveva ragione Pietro, col suo “un po’ alla volta”: gi faceva fatica ad accettarlo.

Pietro sospir, rassegnato. – Va bene, rilassati pure. C’ una battaglia in atto da millenni, ma ormai sono diversi anni che non siamo pi attaccati.-

– Una battaglia contro chi?

Pietro esit un attimo. – Beh, tu lo chiameresti Dio.

13, finalmente (retroattivo di qualche giorno, per)

Non aveva chiesto come doveva vestirsi. Si diede mentalmente del pollo, due volte, una per essersene dimenticato, e una perch se ne preoccupava. Cavolo, se fosse stato necessario il frac il Bolli gli avrebbe detto qualcosa. Gli pass brevemente per la testa l’immagine di sua madre che, anni prima, aveva letteralmente scaraventato via un romanzo rosa, e alle sue domande sul perch l’avesse fatto, aveva risposto “Dio bonino, a questa gli hanno telefonato che il marito ha avuto un incidente, e ci sono tre pagine su come si prepara e si trucca per andare in ospedale. Ma ti pare? Io c’andavo nuda e di corsa. Non un romanzo, il catalogo di Armani”. Ecco, per un momento aveva sentito anche la voce della madre che gli diceva “Se tanto importante, anche se ci vai nudo quel che importa che tu vada”.
Sopra gli abituali camicia e pantaloni jeans infil il solito giubbotto da motociclista anche se ormai la stagione s’era fatta, complice l’inverno mai arrivato davvero, troppo calda per un capo cos pesante. Aveva tolto il paragola e l’imbottitura per poterlo portare ancora qualche settimana, per nulla scoraggiato dal fatto che non aveva mai posseduto una moto. Il giubbotto era stato acquistato solo per via del basso costo, dello spessore del tessuto e delle protezioni su spalle e gomiti. Gli dava sicurezza, in un periodo cos agitato della sua vita non sapeva cosa aspettarsi.
Ecco, sua madre avrebbe detto che era diventato il catalogo della Dainese.
Scroll le spalle a quell’appunto proveniente dalla sua stessa mente e usc di casa. Dopo poco era all’ospedale, davanti al centro trasfusionale, che risiedeva in una struttura staccata dal gruppo ospedaliero principale. Il Bolli lo aspettava appoggiato contro una cinquecento bianca striata e macchiata di ruggine come son macchiati dalla tigna e dalle cicatrici i vecchi gatti di strada. Adesso che sapeva che esistevano dei “Loro”(o dei “Noi”), doveva desumere che farne parte non conferiva ricchezza o, quantomeno, che non veniva ostentata, anzi.
Il Bolli attese che lui accostasse e scendesse, e gli si fece incontro per stringergli la mano e dirgli, a met tra la constatazione e la domanda “Mi segui, si va con due macchine”.
Si inerpicarono per una mezz’oretta su per la collina di Fiesole prima e su quelle retrostanti poi, fino a una stradina che il navigatore GPS di Bruno non riportava, e che costrinse la sua auto a rallentare per evitare di sbattere il fondo sul bordo di una buca ad ogni giro di ruota. Il Bolli, che aveva affrontato lo sterrato con pi sicurezza e velocit, rallent di conseguenza. Quando la strada continuando a salire li port in mezzo a un bosco, Bruno cominci a preoccuparsi, poi ricord che era stato incosciente e ferito nelle Loro mani per un bel pezzo, e che se avessero voluto fargli del male, sarebbe stato quello il momento pi adatto.
In cima alla collina e nel pi fitto del bosco, come nelle fiabe, restava, all’ombra degli alberi pi alti, una costruzione a due piani dall’architettura e dall’aspetto vetusti. Parcheggiate attorno, tra le altre, nella ghiaia bianca che circondava la casa, c’erano diverse centinaia di migliaia di euro sotto forma di automobili di lusso: Bruno non fece fatica a distinguere un Hummer, e si chiese come fossero potute arrivare fin l attraverso lo sterrato un paio di auto sportive.
Parcheggi la sua auto a pettine tra la cinquecento del Bolli e una Punto, dove non sarebbe spiccata come una papera tra i cigni, e segu il medico verso un portone in legno che portava su ognuno dei due battenti un picchiotto a forma di anello in bocca a un leone. Vicino a terra, come non ne aveva pi viste da quando era piccolo, era confitta nel muro una staffa di metallo per pulire le scarpe dal fango.
“Quant’anni ha, questa costruzione?”
“Le fondamenta otto o novecento, ma ci sono parti che ne hanno solo quattrocento; il tetto del secolo scorso” rispose tranquillamente il Bolli.
Bruno non ebbe il tempo di polemizzare su quel noncurante “solo” che il Bolli aveva gi alzato e riabbassato uno degli anelli di ottone.
La porta si apr. Bruno ebbe un sussulto quande riconobbe, fasciata in una tuta da ginnastica, la Gelida.
Cerc di ricordarsene il nome, che s’era ripromesso di tenere a mente, ma il Bolli lo precedette con un “Sabrina, ti ricordi di Bruno, vero?”. E come avrebbe potuto essere diversamente, visto che lo aveva accudito per giorni?
Lei diede due baci sulle guance al medico e strinse la mano a Bruno: “Si, certo, il nostro nuovo acquisto. Entrate”
Nel salone dopo il piccolo vestibolo odorante di terra e tabacco c’era quella che pareva un piccolo ricevimento in piedi.
La dozzina di persone “speciali” che il Bolli gli aveva preventivato era tutta l, evidentemente, adesso voltata verso di lui. “Salve a tutti, io sono Bruno” disse imbarazzatissimo, “ma voi certamente lo sapete gi”:
Qualcuno rispose alzando la mano come aveva fatto lui, un paio annuirono, qualche altro gli si fece incontro per stringergli la mano. Il Bolli lo present formalmente a coloro che si erano avvicinati, quattro in tutto, due uomini e due donne apparentemente di mezza et, abbronzati e vigorosi. Poteva aspettarsi qualcos’altro, da chi probabilmente era tenuto in vita da centinaia d’anni da un metabolismo superefficiente?
Nessuno dei presenti era vestito formalmente. Non c’era nemmeno una cravatta, in vista, n gioielli sfarzosi.
Era tanto attento a cogliere i particolari, distratto in cerca di segnali di pericolo o comunque rivelatori, che non si sarebbe ricordato il nome di nessuno di quelli che gli erano stati presentati. Non sapeva se era un male.
Gli si fecero pian piano intorno tutti, in cerchio, il Bolli a destra e Sabrina a sinistra, tutti sorridenti, tranquilli, a dir poco sereni e rasserenanti.
“Come doveva essere la famiglia Manson”, pens tra s.
Il primo uomo che gli si era fatto incontro gli rivolse la parola allargando ancor pi il sorriso. Bruno si sent nel ruolo del bambino scemo ma gioviale che il paese prende bonariamente in giro.
“Bruno” gli chiese l’uomo (Pietro?) “Tu sai perch sei qui oggi, vero? Sai che giorno ?”
Ma perch continuavano a fargli domande invece di dargli risposte? “No” rispose lui forse un po’ pi bruscamente di quel che voleva “Non so nulla”
“Domani il primo giorno di Farvardin, e stasera pure luna nuova. Domani iniziano tante cose”

(13-continua)

12

-Stasera.

-Stasera a che ora?

-Vieni verso le sette al centro trasfusionale. Io smonto dal lavoro, tu sei di strada, poi si va insieme.

-Alle sette, allora.

-A dopo.

Bruno premette il pulsante rosso che chiudeva la conversazione. Torn a sedersi in poltrona, poich si era alzato per passeggiare nervosamente non appena aveva visto il numero del Bolli sul display e aveva risposto.
“Stasera”, pens di nuovo.
Aveva paura di una gran delusione. Temeva d’esser stato incastrato in uno scherzo, in una truffa o in raggiro di chiss quale tipo e a che fine.

Aveva gli stessi dubbi di qualche settimana prima, lo stesso misto di diffidenza e deja-vu che aveva provato quando la “gelida” aveva fatto netrare il dottor Bolli nella sua stanza.

Poche cose l’avevano stupito come vedere quella faccia familiare, scoprire che il direttore del laboratorio di analisi del suo ospedale, l’uomo che l’aveva messo in contatto con una societ della quale lui ancora non sospettava l’effetiva estensione n l’effettiva influenza era anche il medico che l’aveva in cura dopo l’incidente d’auto e il ricovero in quella che aveva tutta l’aria di essere una clinica di lusso.

Eppure, se l’era in qualche modo aspettato. Sapeva che non viveva in una situazione normale, che c’era qualcosa di fuori posto e fuori procedura, e il Bolli era stata una presenza costante per, quantomeno, coprire le stranezze che da qualche anno gli condivano la vita.

“Eccoci qua” gli aveva detto allegramente entrando, con quella voce appena impastata che all’inizio aveva fatto credere a Bruno che il dottore fosse un po’ fuori di testa, un allegro buontempone sotto l’effeto dell’alcool o semplicemente avesse deciso di metterlo al corrente di qualcosa che era tanto assurdo e ridicolo da non poter essere espresso in maniera coerente. Si mise a sedere nellaa poltoncina bianca davanti al letto. Bruno, seppure con con il busto rialzato dai cuscini, aveva gli occhi appena pi in alto di quelli del medico.
“Cos’ che ho nel sangue, dottore?” aveva chiesto Bruno senza por tempo in mezzo.

Il Bolli aveva stirato quel suo sorriso sottile e strano. “Almeno hai capito perch sei qui”

“Si” Bruno si era allungato verso il bicchiere e la brocca, e aveva bevuto anche per prendere tempo, oltre che per dare sollievo alla gola secca e dolorante. “Ho avuto un incidente. Avrei dovuto farmi molto, molto male. Invece sto bene in maniera imbarazzante. Troppo bene per poter essere ricoverato in un ospedale qualsiasi”

“Bravo, per. Si, funziona cos: appena il nome di qualcuno di noi viene raccolto da i sistemi informatici di ambulanze, ospedali, cliniche, forze dell’ordine, veniamo dirottati, se ancora in vita, verso uno dei nostri centri. Per Firenze e dintorni, questa la struttura, io sono il primario, la Sabrina che hai visto e un altro paio sono le infermiere. Se abbiamo bisogno di specialisti, vengono da altri ospedali e cliniche, fanno quel che devono fare e tornano alle loro attivit nel massimo riserbo.”

Bruno aveva appuntato mentalmente il nome della Gelida. “Noi? nostro?”

“Stai facendo le domande giuste, Bruno. Immagino che, come a tutti noi, t’abbiano girato in testa per un bel po'”

Bruno aveva bevuto di nuovo, a piccoli sorsi. Non aveva voluto ripetere la domanda. Aveva fissato Bolli da sopra il bicchiere.

“Cosa sai del fegato?”, aveva chiesto il Bolli, a sorpresa.

Bruno era rimasto spiazzato. “Forse due chili. Si trapianta bene. Ricresce fino al volume originario se ne resta almeno un terzo. Serve come deposito di sangue, per la disgestione, da filtro per il sangue e non so che altro.”

“Quasi. Bravo Bruno. Arriva a TRE chili, e ne basta un po’ meno di un quarto per rigenerarlo, poich le sue cellule si comportano come cellule staminali. Inoltre, funge da deposito anche per il ferro e il rame, un paio di vitamine e il glucosio. Converte l’ammoniaca ematica in urea, sintetizza la bile, il glucosio, il colesterolo, e in utero anche i globuli rossi.”
Aveva fatto una pausa. “Ti suona familiare qualcosa?”

Bruno rispose subito: “Il ferro e la rigenerazione”

“Esatto. In me, in te, e poco pi di una decina di persone in tutta Firenze, le cellule staminali del fegato non sono obbligate a diventare cellule epatiche. Vengono rilasciate nel sangue, e intervengono dove ce ne bisogno. Ricostruiscono, guariscono, riparano. Il perch noi le abbiamo un fatto puramente genetico. Ognuno dei nostri cromosomi presenta dei telomeri particolarmente lunghi. Sai cosa sono?”

Bruno aveva scosso la testa. “Proprio no”

“Diciamo che sono i ‘braccetti’ delle X dei cromosomi. Tu sai che i cromosomi hanno in s le istruzioni genetiche per riprodurre e mandare avanti i nostri organismi, come in microscopici e complicatissimi manuali d’istruzioni del corpo umano, si?”

“Si”

“Bene, i telomeri sono “pagine aggiuntive” Ogni volta che una cellula si riproduce, questi manuali vengono copiati. Ci sono per degli errori, ed ecco allora che la cellula comincia a fare la cosa sbagliata, o semplicemente non funziona.”

“Cancro?” la parola era sembrata avere le spine, nella gola di Bruno.
“Anche semplicemente vecchiaia” aveva sorriso il Bolli “ecco, nei telomeri ci sono ripetizioni di alcuni pezzi dei manuali, in modo che gli errori vengono corretti. Fin qui mi segui?”

“Si, per ora si”

“In queste pagine aggiuntive ci sono anche un paio di “errata corrige” e procedure aggiuntive, per portare avanti l’analogia coi manuali. Procedure che ci rendono un po’ migliori, che ci avvantaggiano un po’, tra le quali le cellule staminali epatiche”

” ‘Un po” quanto?”

“il quanto dipende dalla genetica. Sono tutti geni recessivi, sappilo, Bruno. Per la continua correzione degli errori ci allunga la vita, e il fatto che abbiamo nel sangue cellule staminali totipotenti ci rende in grado di affrontare diversi guai. Tu, Bruno, devi avere un DNA molto fortunato, visto che hai sempre avuto un numero molto elevato di staminali in circolo, e stai invecchiando molto lentamente, da quando hai raggiunto la maturit”

Sdraiato sul letto, forzato ad una attenta scelta ed economia delle parole dal male alle corde vocali, Bruno era rimasto in un maelstrom di pensieri. Era a met tra la sospensione dell’incredulit e la diffidenza totale. Non sapeva quanto credere alle parole del Bolli. Non riusciva a concedersi di essere l’incarnazione di un sogno hitleriano. Certo, tante cose tornavano al loro posto… il lento invecchiamento, le ferite che guarivano in tempi brevissimi….
“Tutto qua?” Ecco. Di tutte le cose stupide da dire, quella era la pi stupida. Ovvio che non era tutto l, ma non sapeva cosa dire, tante erano le domande che gli si affollavano in testa.

“Guarda, avrei scommesso che mi avresti chiesto del ferro” si era stupito il medico, allargando il sorriso.

“Anche”

“Il tuo organismo ha bisogno, per funzionare al meglio, di quantit pi alte di ferro rispetto al normale. Lo usa per arricchire il sangue, per migliorare diverse sintesi, addirittura per rinforzare la struttura ossea e migliorare la conduttivit nervosa. Per quello te ne ho raccomandato una dieta ricca: senza ferro, sei solo normale.”

“Solo?”

“Beh, Bruno, diciamocelo: sei la Ferrari degli esseri umani. Senza ferro, sarebbe come mandarti avanti a spinta invece che a benzina ad alto numero di ottani. Lo sai che aspettativa di vita hai, cos ad occhio, basandomi su quel che traspare dalle analisi del sangue e non dal profilo genetico, che non abbiamo mai fatto?”

“No.” Per un solo, singolo, irreale istante, Bruno aveva avuto la certezza che il Bolli gli avrebbe riso in faccia e gli avrebbe detto qualcosa tipo ‘un mese, per di pi febbraio’. Invece…

“Dieci, quindici, forse venti volte una vita normale. E non dico ‘ottant’anni’: dico quasi centocinquanta, come sarebbe in regimi e ambienti salubri e controllati .

Bruno aveva moltiplicato mentalmente. Aveva temuto anche d’aver messo uno zero di troppo, sulle prime, o d’aver sbagliato qualche tabellina.
“da… da millecinquecento a tremila anni?”. Non ci credeva. Era troppo. Punto, basta, era tra il ridicolo e l’inquietante.

“Salvo incidenti molto, molto gravi o malattie nuove, ovviamente” aveva annuito il Bolli “sei longevo, non immortale. E anche se invecchierai lentamente, gli ultimi secoli saranno paragonabili a una vecchiaia normale”

Bruno aveva serrato le labbra, fissato il soffitto, scosso la testa, incredulo.

“Non ci credi, vero?” aveva ridacchiato il medico “Va bene. Quanti anni ho io, secondo te?”

Bruno non aveva risposto. A che pro farsi stupire con una cifra incredibile, quale che fosse, ammesso che fosse vera? Anche se il fatto che “loro”, chiunque fossero, avevano trattato la questione della sua carta d’identit con una facilit estrema, probabilmente portatata dall’esperienza, era un punto in pi a favore della veridicit della storia.

Chiese, invece: “Non mi sta raccontando tutto, vero?”

“Ovvio che no”

“Va bene, quando?”

“Presto. Devo presentarti delle persone, e spiegarti molto di pi. Adesso riposa, che ancora ne hai bisogno. Ti chiamo io”

Con quella frase che di solito un diplomatico “addio, pollo” se ne era andato dalla stanza, e non s’era fatto risentire fino a quella sera.

Cos’aveva di speciale proprio quella sera?

11

Bianco.
Era passato dal sonno alla veglia come una lampadina che si accende, e la prima impressione che ebbe fu la difficolt meccanica nell’aprire gli occhi, le palpebre incollate dagli umori del lungo sonno.
La seconda impressione fu, appunto, il bianco del soffitto. E delle pareti. E del letto. Come nella vecchia battuta, cap di essere in ospedale, e richiuse gli occhi, abbagliato tanto dalla rivelazione quanto dalla luce. Solo allora ricord il fulmine. Comprese che l’auto doveva quantomeno essere finita fuori strada, senza controllo, visto che non ricordava d’aver accostato. O forse l’aveva fatto prima di cedere al buio, e non lo ricordava. Sete, ecco cosa aveva, la bocca tanto secca che non la sentiva nemmeno impastata. Quanto aveva dormito? O, meglio, quanto era stato senza conoscenza? Riapr gli occhi, lentamente, e si guard le braccia poggiate sopra le coperte, mettendole a fuoco a fatica. A parte un cerotto per tener fermo l’ago di una flebo, nessun segno. O non s’era fatto niente dopo il blackout, o aveva dormito a lungo. Mosse il braccio libero dal tubo per toccarsi il volto, e not intanto che era senza orologio. Tocc le guance, la fronte. Niente bende, la barba corta. O lo avevano rasato da poco, o aveva dormito poco. Non credeva che gli infermieri che si prendono cura degli incoscienti si premurassero di lasciare un corto pizzo sul mento dei lungodegenti, e si rassicur: era stato “spento per sovraccarico” al massimo due, tre giorni. E se non aveva ferite, doveva in qualche modo aver evitato uno scontro, o un fuori strada; anche il fulmine non doveva averlo preso in pieno, oppure la famosa Gabbia di Faraday -ah, quanto era nerd a ricordarsi cose del genere!- ne aveva sminuito gli effetti. Inspir forte, preparandosi a mettersi seduto sul letto, cosa che fece senza disagi. Si gir intorno. Stanza singola, tutti gli arredi immacolati, alle pareti dipinti di rilassanti panorami agresti, non dozzinali, in cornici bianche, persino le tende alle finestre erano di una qualche stoffa e non veneziane o tende verticali. Tutto urlava a pieni polmoni “clinica privata”. Urlava anche “costoso”, cosa che lo preoccup quasi quanto -mosse le gambe, si diede un pizzicotto al pene, riscontr che tutto era perfettamente sensibile e presumibilmente efficiente- il dubbio di aver riportato danni seri. No. Se non c’era arrivato da solo, chiedendo “ricoveratemi nella suite panoramica”, cosa di cui dubitava, il costo non era un suo problema.
Non era nemmeno strano che non ci fosse nessuno al suo capezzale, visto che uno di quei macchinari che nei film fanno bip-bip al solo scopo di annunciare con un fischio prolungato quando il protagonista muore era attaccato, silente ma pulsante di lucette, con una coppia di elettrodi adesivi al suo collo. Si sent il mostro di Frankestein, per uno scherzoso secondo (“A.B. Qualcosa”-“Sedadavo”), e mentre provava ad imitarloscopr con leggero dolore che la gola secchissima gli impediva di ruggire.
Era l’ora di vedere qualcuno, allora.
Appeso alla testata del letto trov senza nemmeno cercarlo il pulsante per chiamare l’infermiera o il medico di guardia. Lo premette brevemente.
Nemmeno dieci secondi (“Si, clinica privata”, si disse con rassegnazione) e la porta si apr e una infermiera fece il suo ingresso con un “Buongiorno. Qualcosa da bere, suppongo. Succo di frutta? Acqua?” Non aveva nemmeno provato a sorridere, carina e distaccata, ma si era premurata di alzargli i cuscini dietro la testa mentre domandava. Bruno rispose uno stentato e rauco “acqua, grazie” degno di Zio Tibia mentre la carinaegelida gli mostrava con l’esempio diretto quale pulsante del telecomando alzava lo schienale del letto. “Quanto…?” prov a inquisire lo sballottato Bruno mentre la gelidaecarina usciva interrompendolo “Non so, signore, sono montata stamattina. Vado a prenderle l’acqua e controllo la cartella”.
La Gelida fu di ritorno in pochi secondi (e che, l’aveva dietro la porta, la brocca?) dicendo “Domenica pomeriggio. Oggi marted.” vers un mezzo bicchiere d’acqua in un bicchiere sfaccettato che, tra Bruno e la finestra, diede in mille riflessi e barbagli “beva piano. Si bagni le labbra, prima. Io intanto chiamo il dottore, che le toglier quei dubbi che le leggo negli occhi”. Bruno stava in realt stringendo le palpebre per la luce alle spalle della Gelida, ma l’inizio di sorriso che le lesse sulle labbra lo spinse ad annuire e a ricambiare il sorriso. Gelida, e carina, come da prima impressione.
(11-continua)

10 (dovevo aspettare un week-end piovoso, no?)

LAMPO!
Brunoferm la serie mentale di “machimel’hafattfaremachimel’hafattofare” per iniziare a contare: “uno… due… tr-” Fu interrotto dal tuono. Tre chilometri di distanza, se ricordava bene la formula imparata qualche decennio prima sul Manuale delle Giovani Marmotte.
Era l’unico modo, quello di distrarsi, per evitare di maledirsi per essere uscito con un tempo del genere.
Sembrava che il tempo, dopo un sabato di tempesta, si fosse appena appena rimesso, e Bruno s’era arrischiato ad andare a Firenze, e nella fattispecie all’IKEA, contando sul fatto che quando piove nessuno ha voglia di uscire. Sapeva di essere strano, nell’essere infastidito dalla folla; non era certo che esistesse la demofobia, ma avrebbe accettato con rassegnazione di esserne affetto. Aveva per solo quello, come unico giorno libero per una visita di “ricognizione” per una libreria da acquistare.
Aveva cos dribblato tutti quelli che facevano passeggio e struscio, guardando solo con minimo interesse i mobili esposti, si era fatto un preventivo, aveva approfittato del momentaneo calo di presenze dell’ora di pranzo per investire qualcuno dei suoi buoni pasto in una quantit industriale di polpette, aveva raccolto al volo delle bacchette per quando cucinava giapponese e un set di bicchierini da grappa, e, pagati questi ultimi, era volato via verso casa. Adesso, tra Firenze e Campi Bisenzio c’era solo lui.
Oddio, volato. Aveva fatto in tempo a raggiungere la rotonda verso Campi che Chiunquesialass aveva innestato il “risciacquo energico” della megalavatrice che era il mondo, e Bruno aveva dovuto rllentare, dato che i tergicristalli non riuscivano a tenere il passo delle onde che gli si formavano sul parabrezza.
Qualche coglione di programmatore radiofonico era riuscito a ripescare, tanto improbabilmente quanto malappropriatamente, “Azzurro”. “Bella canzone, eh!”, pens Bruno, “solo, idiota seduto in un ufficio, non credi che gli ascoltatori si sentano presi per il culo?”
LAMPO!
“uno… du-” Il tuono fu corto e possente. Meno d’un chilometro, probabilmente, visto che aveva contato forse troppo veloce. Con altrettanta probabilit, il centro della perturbazione si stava avvicinando. Infatti, Bruno dovette rallentare ancora, visto che la pioggia era ancora aumentata in furia e intensit “Ma questo un uragano” disse tra s. Meno male che tutti dicevano che l’auto una gabbia di Faraday quasi perfetta, quindi isola da fulmini e scariche i suoi occupanti.
Il lampo e il tuono lo fecero sussultare, contemporanei e vicinissimi, nel padule accanto alla strada. Il tridente rovescito della scarica elettrica gli rimase per qualche secondo sulla retina, e poco manc che lo scatto nervoso che aveva fatto per la sorpresa si comunicasse al volante e lo mandasse fuori strada.
La prese in ridere, a quel punto. Alz gli occhi verso il cielo grigio e scuro e pesante come quei piombini da pesca che suo padre gli aveva una volta regalati quando lui aveva poco pi di cinque anni, e scherni “Oh, Capo, hai sbagliato mira, io sono un pelo pi a sini…” Il colpo fu spaventoso. Lo zitt all’istante, con negli occhi l’immagine delle proprie mani ricoperte di scintille come da parassiti vermiformi, e nel petto l’oppressione dei muscoli paralizzati dalla scarica. Poi, tutto divenne buio.
Miracolosamente il fulmine non fece esplodere il serbatoio dell’auto, ma si limit a incendiare i fumi della benzina che spararono via il tappo e il coperchio in una vampa degna di un lanciafiamme.
I copertoni, a dispetto del presupposto essere isolanti, si fusero coll’asfalto quasi istantaneamente, e lo stesso fecero tra s le parti mobili dei freni e del differenziale. L’auto inizi un testacoda che Bruno, afflosciato sul sedile come una bambola di stracci, le mani ancora contratte sul volante, non aveva pi il potere di contrastare.
Uno degli alberi che costeggiavano la strada ferm la corsa della vettura prima che questa volasse nel fosso sottostante. La fiancata dal lato del passeggero era distrutta, e l’auto fum per qualche secondo, prima che la pioggia abbattesse anche i fumi, da diversi punti.
Fece in tempo a freddarsi qualsiasi focolaio e lamiera arroventata, prima che qualcuno passasse e notasse il corpo di Bruno alposto di guidae la larga macchia di sangue che l’impatto del cranioaveva allargato sul finestrino rimasto intatto.

9 – (with a little help from my friends)

Il Padrone gli aveva fatto vedere, appena luminescente nel buio della sua camera, una specie di riproduzione tridimensionale del locale e di dove avrebbe trovato i bidoni. Finse per di vagare per il magazzino leggendo etichette e prendendo appunti come se fosse un controllo qualsiasi. Poi, appena a portata d’occhio, indic al magazziniere il pallet ricoperto da un telo di nylon la cui trasparenza era seriamente minata da uno strato di polvere. Sotto la plastica si intravedevano sei o sette bidoni blu, appoggiati al muro di cemento appena imbiancato.

“E quelli?” chiese con lo stesso tono con cui l’aveva chiesto ormai una dozzina di volte al magazziniere e al responsabile di laboratorio che l’accompagnavano. Il primo dovette alzare un lembo del telo, leggere un numero referenziale e confrontarlo col database su un palmare prima di rispondere con un nome probabilmente pi lungo della molecola che rappresentava: “Dianil-deidro-noracetilfenalina; un lotto di undici anni fa”

“E scade quando? con tutta quella polvere sopra, non sembra molto usata; quanto ci durer questa scorta? e, soprattutto, quanto ci costato produrla per poi lasciarla qui?”

Prima che il magazziniere si chinasse di nuovo a leggere sul palmare, il biochimico intervenne: “Praticamente non ha scadenza. E’ stata una scoperta del compianto professore, e il brevetto nostro, e quindi il costo di produzione minimo”

“Meglio cos” si rallegr Leonardo “adesso vorrei sapere a cosa serve”

“ nata come un blando fluidificante del sangue e antitrombotico, ma un eccellente anticoagulante. Doveva essere usato anche come antiinfiammatorio ad uso locale”

“E come mai questi bidoni sono morti qui?”

“Fu riscontrato a posteriori un effetto adrenergico, seppur blando, non compatibile con le cardiopatie per cui doveva era stato progettato”

Leonardo dovette richiamare le nozioni acquisite recentemente: “ un eccitante?”

“Blando” ripet il biochimico

“Ottimo” sorrise Leonardo “undici anni fa non c’erano n energy drinks n stimolanti sessuali. Ci sono controindicazioni a miscelarlo al nostro Erectil, alle bevande della linea sportiva? e gi che ci siamo, all’eparina di vacutainer e sacche ematiche, come anticoagulante?”

“Non si usa pi l’eparina. Citrato di sodio, ad esempio” sorrise il biochimico

“Devo trovarmi dei testi pi aggiornati; per fortuna le sacche non le vendevo io. Ripeto, ci sono controindicazioni?”

“Dovremo fare dei test, ma non credo ci siano interazioni”

“Fateli. Ah, visto che produciamo adrenalina per primo soccorso: che effetto avrebbe ‘tagliare’ anche quella con la di-amil-ani… cavolo, chiamiamolo damianina, come me, eh, cos vi ricordate tutti di che si parla… diminuirebbe l’effetto, vero?”

“Si, credo, sempre a meno di interazioni. Vanno fatti i test”

“Quanto prima, mi raccomando. Voglio che questi bidoni spariscano al pi presto. Son soldi fermi, vediamo di usarli in maniera costruttiva” aggiunse mentre si voltava per andare in ufficio, salutando a malapena con un “a dopo”.

Mentre saliva le scale, la porta tagliafuoco gli si chiuse dietro spinta dalla forte molla. Il biochimico attese di sentirla sbattere prima di soffiare a mezze labbra “Damianina, uso costruttivo… stronzo arrogante, nemmeno l’avesse inventata lui!”

Il magazziniere intu pi il tono che le sentire la parole, e comunque annu.

8

Paolo prese la parola alzandosi in piedi e quindi chinandosi lentamente fino a poggiare le nocche sul piano nero e lucido. I soci sottostettero in silenzio alla carrellata che il suo sguardo a met tra il severo e il compiaciuto effettu su di loro.

“Signori, grazie per essere intervenuti. Per me la prima occasione utile per ringraziare molti di voi per la partecipazione al funerale del professore mio padre e, soprattutto, al dolore della mia famiglia. Io e mia madre ve ne siamo grati.

Il motivo di questa riunione facilmente intuibile, ovverosia il passaggio del testimone alla guida dell’azienda. Nonostante mio padre abbia lasciato esplicite direttive affinch la direzione seguisse la quota di maggioranza del capitale, sappiamo tutti che non sar facile adempiere in pieno le sue aspettive. Mio padre era, inutile sottolinearlo, il cuore commerciale, scientifico e umano di tutti noi. Non sarebbe possibile sostituirlo degnamente nemmeno in uno dei tre campi, figurarsi in tutti.

Mio padre per ha sempre saputo sfruttare le circostanze, utilizzare al meglio i mezzi a disposizione, indipendentemente dalle convenzioni e dai preconcetti. Cos spero di riuscire a fare io, facendomi affiancare nel ruolo che il professore mi ha riservato da un elemento eccezionale.”

La delusione sulle facce dei presenti era evidente. Avevano capito che nessun tipo di avanzamento nell’azienda era stato riservato a loro o ai rispettivi sottoposti; avevano almeno avuto l’umilt di non pensare a s stessi come “eccezionali”

Paolo riprese a parlare:

“Leonardo Damiani, nonostante la relativamente bassa anzianit, stato a mio parere l’elemento pi prezioso nello scorso anno. La sua lungimiranza, i suoi rapporti colla grande clientela, ci hanno consentito di indirizzare la produzione sempre nella direzione giusta; ha saputo cogliere le tendenze al volo, e sfruttarle. Ci ha fatto vendere e, sopratutto, risparmiare su spese di gestione magazzino, rese, invenduti, pi lui di tutti gli altri messi assieme.

Mio padre avrebbe saputo cogliere questa occasione, se negli ultimi tempi avesse potuto seguire l’azienda come faceva di solito. Avrebbe premiato Damiani per le sue capacit, e con lui avrebbe premiato l’azienda. Da questo momento Damiani, come sono certo avrebbe voluto mio padre, responsabile alla produzione e alle vendite e, vi stupir, ho ritenuto opportuno non farlo partecipare a questa riunione in quanto impegnato nello studio per poterpresto avere voce in capitolo anche nel settore della ricerca e dei processi. E, soprattutto, per godermi la sua espressione di persona e in santa pace quando gli comunicher la notizia.

Potrete congratularvi con lui personalmente appena l’avr fatto. Aspettatevi grandi cose da quell’uomo.”

Nel suo ufficio, Leonardo seppe della sua promozione dalla sommessa risata proveniente dallo spiraglio verso la stanzetta dell’archivio. Chieseconferma a Quello del Buio: “Ce l’ho fatta, vero?” senza alzare gli occhi dal .pdf sullo schermo. Non occorreva risposta.

7 – tanta attesa per cos poco

Fuori dal pub, tardi, con gli amici coetanei che dimostavano cinque anni pi di lui, Bruno provava a spiegarsi.
“Sono grullo” diceva, come sempre quando gli chiedevano come facesse a mantenersi giovanile: “Siete mai stati in un manicomio, avete mai conosciuto dei matti? Ce ne forse uno che dimostri la sua et? Sono le preoccupazioni, le cose serie, che ci invecchiano. Io son grullo, non mi preoccupo di nulla, quindi non invecchio, non ho rughe o capelli bianchi per le preoccupazioni… casomai per gli stravizi: reggo bene l’alcool, sono i conti che mi fregano”
Era, stasera, la “parte alcolica” -tre allievi, lui compreso- della compagnia del karate. In giornata c’era stato uno stage, uno dei tanti degli ultmi anni, da parte di un maestro da un’altra scuola affiliata. Nulla di che, pi che altro storia dello stile da lui insegnato, per era l’occasione per finire una sera di pi nel solito pub di bassissimo ordine e altissimi prezzi che se non fosse stato situato nelle immediate vicinanze della palestra non li avrebbe visti pi dopo la prima visita.
Invece, anche stasera, appena usciti dal locale, erano di nuovo a lamentarsi, l’Altoni, il Nadi e lui.
“Hai ragione anche te”, rincar il primo “Dio bono, ogni volta lo giuro e ogni volta ci ricasco… quattro euro per tre patatine non me li ripigliano.”
“Pi il coperto, anche se stemperato su un minimo personale di tre birre. Schifoschifoschifo”
Questo sabato sera gli stessi discorsi di ogni marted e gioved. Una costante nelle amicizie: ci si trova a parlare degli stssi argomenti, e ogni volta si riesce a trovare qualcosa di nuovo. E l’Altoni e il Nadi dividevano un’amicizia di vecchia data, da prima del Karate.
Bruno era stanco. Cavolo, se lo era. Era il pi massiccio nel gruppo degli altrimenti longilinei e nervosi karateka, e aveva avuto il fiatone, come al suo solito, gi dopo il terzo giro di riscaldamento. Il portare in giro i suoi cento e rotti kg -nessuno avrebbe detto che avesse, come diceva scherzando lui, “la densit di una nana bianca”-, unito alla sua leggera anemia, lo metteva presto in debito d’ossigeno.
Avrebbe potuto scegliere pi fruttuosamente altri sport o attivit fisiche, meno aerobiche, ma semplicemente non sarebbero stati quel che cercava, non nel suo stile di vita e modo di sentire. Vedere dal di dentro il proprio corpo che eseguiva quasi automaticamente i kata, tanto pi precisamente quanto pi lui era estraniato, e combattere lasciando alla parte pi automatica e primordiale del cervello, quella in comune coi rettili, e alla memoria muscolare il compito di parare e contrattaccare, lo riempiva di una pace interiore che Bruno riteneva molto prossima all’Illuminazione, allo zen. Credeva quantomeno possibile che un giorno di questi, pur non diventando un karateka eccellente, sarebbe giunto al Satori o a quella cosa che in occidente viene chiamata Trasfigurazione.
Era fondamentalmente ateo, ma credeva nell’infinto potere della mente umana adeguatamente disciplinata e diretta.
“Mimmi, io vo”, disse, con un tono teatralmente stanco.
“Ci si vede marted, vengo via anche io” convenne il Nadi
Si divisero, quindi, lui da una parte verso la sua auto, parcheggiata lungo la Pistoiese, e i due dall’altra, verso due scooter quasi gemelli che partirono insieme come quelli di una pattuglia di vigili urbani.
Non aveva percorso nemmeno cento metri quando sent lo squitto. O almeno l per l gli sembr proprio quello, uno squitt.
Veniva dal cortile dietro uno dei mille capannoni lungo la stada, illuminato ma defilato, raggiungibile solo attraverso uno stretto vialetto carrabile, e destinato di giorno a parcheggio per operai e clienti delle ditte -elettronica, pelletteria, accessori e minuterie- che costituivano il raccordo tra il centro commerciale e la periferia operaia tra Firenze e Pistoia.
A terra un paio di buste di plastica smosse appena dal vento e innumerevoli mozziconi di sigaretta.
Si avventur in quella direzione. S’aspettava di trovare un cucciolo, un animale ferito, non certo quello che vide appena dietro l’angolo, in fondo al vialetto.
Tre figure si muovevano sopra una pila di scatole di cartone schiacciate, e quella che aveva emesso quel verso da animale in trappola pareva averne ben donde: era una donna, che si contorceva sotto le altre due sagome, la bocca schiacciata da una mano che pareva volerle strappare la faccia, gli occhi a mandorla, spalancati, la testa tirata rabbiosamente indietro per i capelli dall’altra mano di uno dei due aggressori. Cosa stesse facendo l’altro fu chiaro anche nella frazione di secondo che pass tra l’aver svoltato l’angolo quasi sbattendo addosso al terzetto e l’istintiva reazione di Bruno, che sferr un poderoso calcio in quelle natiche a malapena coperte dai pantaloni allentati. Un nuovo gemito della donna, lo sguardo carico di sorpresa e determinazione dell’aggressore che la teneva ferma, lo sbuffo di dolore del violentatore e il pensiero di Bruno “Chi me l’ha fatto fare?” giunsero assieme, contemporanei e sinestetici.
Bruno rimase l, dandosi mentalmente del cretino per essersi andato a mettere nei guai, ma determinato a rimanerci fino a che la donna non fosse stata fuori pericolo, senza fare altro che assumere automaticamente e inconsciamente la posizione di guardia.
L’uomo che aveva ricevuto il calcio, un orientale, quasi certamente un cinese, anch’egli, si alz da sopra la donna su cui era caduto quando il calcio l’aveva sbilanciato, con le mani gi a chiudere il bottone dei pantaloni prima ancora d’aver finito di girarsi.
“Lasciatela andare” si sent dire Bruno; era come stare seduti al cinema e vedere una lunga sequenza in soggettiva. Sembrava l’inizio di “Strange days”. Di nuovo, il suo cervello da rettile aveva preso il controllo, facendolo parlare come in un western e pilotando il suo corpo in una posizione di minimo bersaglio, quasi di tre quarti, il ginocchio destro avanzato.
“Fatticazzi tuoi” rispose quello che continuava ad arreggere la donna, peraltro con molta meno fatica, visto che anche questa stava lottando pi debolmente, presa dagli eventi. Aveva detto “fatticazzi”, tutto attaccato, come fosse una nuova parola, una voce gergale per “guai, impicci”.
Il film nella testa di Bruno parve rallentare quando, senza preavviso, Pantaloni lo scalci al ginocchio avanzato. Aveva preso male tempi e distanze, e mezzo passo indietro di Bruno, strisciato sulla graniglia polverosa del cortile, mand a vuoto l’attacco. Bruno non contrattacc, cercando fino all’ultimo di evitare uno scontro. Pantaloni interpret l’esitazione come paura, e l’alzarsi di un angolo delle labbra strette anticip di una frazione di secondo il suo avventarsi, entrambi i pugni tesi in un uno-due che Bruno in gran parte par e devi, e marginalmente prese sul braccio sinistro, sulla parte alta del muscolo. Il doppio colpo gli mand una bella scossa elettrica fino alla mascella. Prima di accorgersene, di pianificare, l’altro suo braccio era gi scattato, affondando le nocche di un hiraken verso il collo dell’aggressore. Questi prontamente protesse la gola abbassando il mento. Bruno sent l’umido, attutito scricchiolo dei denti allentati sotto il labbro schiacciato. Un po’ pi goffamente, colp col piatto dell’altro pugno alla tempia mentre portava il corpo indietro. Il tipo barcoll, entrambe le mani alla bocca, dove qualche goccia di sangue gi iniziava a colare.
L’altro cinese era gi pronto, appena fuori dal campo visivo di Bruno, che era stato distratto dallo scambio di colpi, e appena fuori dalla sua portata.
Aveva il braccio sinistro steso in avanti, il palmo aperto verso l’italiano: “Aspetta, aspetta!” disse avanzando.
Bruno non concesse al trucco che una frazione infinitesimale di secondo: della mano destra, stesa lungo il corpo, non vedeva il pollice coperto dal palmo come quello di un prestidigitatore.
Il cinese percep l’occhiata, per qunato fugace, e vide lo stratagemma scoperto. Torse rapidissimo il busto, usando il braccio avanzato come contrappeso come nella giostra del saracino per portare pi velocemente in avanti e verso l’alto la mano destra e il taglierino giallo fluorescente che conteneva, la lama quasi completamente estratta. Se Bruno non avesse scartato col busto all’indietro, avrebbe avuto la faccia aperta dal mento al naso, o la gola tagliata. Sent anche l’odore di plastica e solvente di mano e taglierino, quando questi gli spostarono l’aria senza toccarlo a pochi millimetri dal viso. Sbilanciato all’indietro, Bruno continu il movimento con un calcio al basso ventre. Lo strabuzzare degli occhi e la perdita di coordinazione del cinese furono un premio per Bruno, e gli consentirono di recuperare un assetto stabile e caricare un destro poderoso al volto dell’avversario.
Prima di acorgersene, eral’unico in piedi.
La donna si copriva il seno, met sdraiata e met suduta sulle scatole, il volto ancora arrossato. Si ricompose senza alzare gli occhi e se ne and passandogli accanto, degnando i due doloranti a terra solo di un calcio alle costole del primo aggressore e Bruno nemmeno di quello. Bruno ansimava pi per la tensione che per lo sforzo fisico, fissando alternativamente i due a terra, i quali si limitarono a restituire sguardi carichi di odio ma non fecero alcun tentativo di alzarsi. Bruno inizi a retrocedere lungo lo stesso percorso da cui era venuto, senza perderli d’occhio.
Sentiva il sangue scorrergli lungo la mano sinistra e un vago pulsare all’avambraccio, ma non li guard. In fin dei conti, quello col trincetto doveva averlo toccato. Non si stup del mancato dolore: sapeva che appena l’adrenalina si fosse diluita sarebbero arrivati il dolore del taglio, quello dei colpi al braccio e forse anche di un paio di leggere contratture per i movimenti bruschi ai quali, nonostante tutto l’allenamento, non era abituato. Gi si aspettava una ramanzina dal maestro se e quando fosse venuto a sapere dello scontro: “La battaglia l’ultima soluzione”. Gi, vallo a dire alla donna.
Cominci a correre appena sulla strada, raggiunse l’auto e mise in moto, notando ma non curandosi delle gocce di sangue che pos sul volante e sul ginocchio mentre si sedeva e partiva. I due aggressori, con suo sollievo, non spuntarono dal vialetto. Non aveva forza e lucidit per proseguire la lotta, e sapeva che gli conveniva lasciare il campo quando vinceva, adesso che la donna era in salvo. Forse.
Al primo semaforo si tir su la manica della camicia, sfrangiata, adesso lo vedeva, da un taglio corto e umido ad un palmo dal polso. La camicia era nera, come ne portava al suo solito, e il sangue si distingueva solo per il riflesso scabro che dava alla stoffa sotto le luci gialle del Ponte all’Indiano.
Il taglio era corto e non profondo, e c’era quasi da stupirsi che avesse versato tutto quel sangue. Bruno allung la mano destra verso il pacchetto di fazzolettini umidificati che teneva sempre nella tasca scorrevole sotto il sedile del passeggero. Riflettendo su quanta fortuna aveva avuto per mantenere sani tutti i tendini, e continuando a gocciolare sempre pi lentamente solo sui tappetini, ne us una lunga striscia per fasciarsi la ferita. Sper che bastasse, non aveva proprio la voglia e lo stomaco di raccontare ad un pronto soccorso come si era fatto quel taglio o, peggio, inventare un incidente domestico, mentre gli mettevano dei punti. Guid teso fino a casa, abituandosi lentamente al pulsare ritmico del taglio, e facendo attenzione a che il sangue non imbevesse troppo l’improvvisata fasciatura.
Si spogli con cura della camicia, sul lavandino del bagno. Lav via il sangue rappreso spruzzandolo abbondantemente con acqua ossigenata, e rasserenandosi di vedere che la cicatrice aveva gi chiuso il taglio. Non ci sarebbe stato bisogno di punti, alla fine: era una di quelle ferite che si chiudevano da sole. Medit qualche secondo se buttare la camicia nel sacco della spazzatura o nel cesto dei panni sporchi, poi la pass sotto il rubinetto dell’acqua calda e tolse il grosso della macchia di sangue. Avrebbe ricucito da solo il taglio nella stoffa, o almeno ci avrebbe provato prima di portare a quella santa donna di sua madre la camicia lavata. Cerc sui pantaloni le gocce che erano cadute mentre teneva le mani sul volante, e sciacqu anche quelle. Sapeva che ormai di andare a letto non se ne sarebbe parlato per almeno un’ora, carico e nervoso com’era, e us quel tempo per prepararsi il cambio di vestiti per l’indomani, cucinarsi una fettina di carne appena spaventata sulla piastra, e decidere molto controvoglia di non denunciare l’accaduto alle forze dell’ordine. A che pro? Non avrebbe saputo fornire un identikit decente dei due, n della donna. Sapeva poi che la comunit cinese regolava da sola i propri affari, nel bene e nel male, e che sarebbe stato molto difficile far denunciare alla donna i duei assalitori, se gi non l’aveva fatto. Non era sereno per nulla. Quella sera aveva fatto la parte del vendicatore solitario come nei peggiori clichees, e non ne era n fiero n contento, soprattutto visto che il combattimento era finito in una fuga, soprattutto perch non sapeva che fine avrebbe fatto l’aggredita, soprattutto perch il suo corpo, quella ferita subito richiusa, gli avevano ricordato che il suo corpo non era normale.