Caishor

Il suono del corno lacerò per tre volte la rada nebbia, superando la cacofonia metallica della battaglia. Caishor non lo udì quasi, preso come era dal tagliare vite altrui salvando al contempo la propria, e rimase perciò per un attimo stupito quando, accasciatosi sotto i suoi fendenti un avversario, nessun altro venne a misurarsi con lui. Poi capì che con quel segnale era stata comunicata all’esercito nemico la ritirata. Il fronte avversario si era adesso compattato, indietreggiando spalla a spalla si allontanava.
Si guardò velocemente intorno: i cadaveri sul campo testimoniavano che i nemici avevano sbagliato, come lui aveva subito capito, a sparpagliare uno schieramento per impegnare scontri uomo a uomo contro di loro, meno numerosi ma meglio preparati e, soprattutto, più esperti.
Già, più esperti. Affondò per metà la spada lorda di sangue nella terra grassa, slacciò lo scudo e si sedette, mentre la tensione dei suoi muscoli e dei suoi nervi si allentava trasformandosi in un formicolio quasi piacevole in tutte le membra.
Guardò la parte di spada che sporgeva del terreno, e vide il gran numero di intaccature che adesso ne sfigurava il profilo. Avrebbe dovuto riaffilarla. Quante vite aveva preso, questa volta? Tre? Quattro? Contò i cadaveri presso di lui, per esserne certo: nella sua mente viveva la battaglia come un solo, frenetico istante, a causa della “febbre di sangue” che ogni volta lo pervadeva. Lo spirito dell’orso, come era chiamato nelle terre del nord, l’aveva lasciato, adesso, lasciandogli solo la spossatezza ed una ferita abbastanza profonda all’attaccatura della gamba sinistra che ogni secondo gli doleva di più. La toccò, cautamente. Ritirò le tre dita che gli rimanevano della mano sinistra macchiate di rosso.
“Caishor, tutto bene ?” gli chiese Wulf, a cui la nebbia infondeva un’aria spettrale, davanti a lui.
“Ho paura che il chirurgo dovrà ricucirmi come un vecchio sacco, ma almeno ci andrò con le mie gambe.”
Wulf rise, facendosi sempre più terreno via via che si avvicinava. Ancora? È mai possibile che non ti riesca più di combattere quattro villani senza lasciare qualche pezzo di te sul campo?”
Caishor sospirò. “Eh, che ci vuoi fare, sto invecchiando!”. Wulf gli tese la mano per aiutarlo a rialzarsi. L’accettò.
La ferita protestò, ma lui decise di non ascoltarla.
Raccolse la spada. La pulì dal sangue e dalla mota contro il mantello di un cadavere, e con un brandello relativamente pulito dello stesso si fece una rozza benda.
Divise con Wulf il poco di utile che trovarono sui corpi dei nemici: qualche moneta, una misericordia dall’elsa intagliata, ornamenti di argento grezzo.
Si rese conto che loro due non erano niente di più dei corvi che già calavano sui cadaveri: predatori di carogne; ed i neri panni sopra l’armatura, la divisa di mercenario, non facevano altro che accentuare la similitudine.
Da quindici anni combatteva guerre non sue, vendendo il suo braccio al miglior offerente, e l’unica regola per far tacere la coscienza era di non chiedersi mai da che parte fosse il bene.
Aveva visto cose atroci, in tutto quel tempo.
La guerra è bella solo nei poemi epici; il fango, il sangue, la merda di cavallo non fanno rima, e le urla di una donna stuprata hanno una metrica imperfetta. Un amico che muore per una ferita infetta non insegna alcuna morale, i pezzi dei prigionieri torturati e mutilati sono ancora troppo grandi per un’ottava, e non c’è licenza poetica che possa correggere la morte per fame. Non la corregge niente, la fame.
“Wulf, torniamo al campo. Mi faccio ricucire da qualcuno e vediamo di mangiare qualcosa.”
“Abbiamo vinto: staranno già festeggiando e spargendo buon vino.” Tacque per qualche battito di cuore, guardando a terra. “Credo che questa sia stata l’ultima battaglia di questa campagna”.
“Speriamo di no. Preferisco morire con mezzo metro di acciaio in corpo, tutto assieme, che di fame, un po’ per volta.”
Wulf alzò su di lui gli occhi grigi, freddi come il ferro.
“Non sei stanco, Caishor? Quanti anni sono che fai questa vita?”
“Quindici. E quindici ne avevo quando mi sono venduto come una baldracca per la prima volta. Non gli disse che aveva già ucciso a tredici anni, per il più nobile, e quindi il più stupido dei motivi: l’amore. Ricordava gli occhi scuri di quella ragazzina, le sue labbra, le promesse che si erano fatti l’un l’altra. Ricordava il padre di lei, che rompendo i patti, l’aveva maritata al grasso figlio di un grasso mercante. Ricordava gli occhi pesti dal pianto che la piccola non aveva avuto il coraggio di fissare nei suoi quando lo aveva visto sotto la sua finestra, bianca in volto come il lenzuolo appena macchiato dal sangue della prima notte che stava stendendo a dimostrazione della perduta verginità. Ricordava la gioia che aveva provato nel sentire la vita del rivale scorrere insieme al sangue sulle sue mani, e la risata che non aveva potuto frenare quando aveva pensato all’analogia di ciò che stava facendo a lui con quello che lui aveva fatto a lei. Ricordava il “Tornerò” che le aveva soffiato sulle labbra quella sera stessa, prima che le dicessero cosa era successo in un vicolo, gli interrogativi di lei ai quali non aveva risposto. Non era tornato, non perché avesse avuto paura della forca, ma perché lei era morta. Si era avvelenata, uccisa tanto dalle chiacchiere quanto dall’arsenico. Gli aveva mandato una lettera tramite un servitore. Caishor non l’aveva mai aperta.
“Caishor, sveglia! A cosa pensavi? T’è presa la voglia di smettere?”
Caishor scosse il capo. “No. Non me lo posso permettere. Non ho casa, lo sai. I miei soldi se li sono presi tutti gli osti, le bagasce ed i bari, e se ho qualche parente ancora vivo deve essere qualche bastardo che ho seminato in giro per il mondo.”
“Ma hai ancora una patria, una città natale, se vuoi.”, insistette Wulf. L’altro sorrise, amaro.
“Non immagini con quanta gioia ho aiutato un esercito a prenderla e a spogliarla, qualche anno fa. Li ho ripagati con gli interessi.”
“Di cosa li hai ripagati? Per le palle di Wotan, Caishor, non parli mai con nessuno, e quando lo fai, dici le cose a metà!”
Caishor continuava a guardare avanti a sé.
“Li ho ripagati per aver ucciso la mia parte buona. E senza quella, non si può far altro che il mercenario. Tu forse lo fai per soldi, io lo sono stato per rabbia, per bisogno, per disperazione, per abitudine.” Alzò la mano mutilata, la fissò per un secondo. “Ho cambiato molte vite, credo, e l’ho fatto quasi senza saperlo. Solo i pazzi ed i religiosi non si chiedono mai se è giusto quello che fanno, e se non si stanno guadagnando lo schifo degli Dei. Ognuno uccide più dentro di sé che fuori, e io non credo di aver mai ucciso nessuno che non credessi me stesso.”
“Non… non ti capisco.”
“Non importa. Neanch’io. Comunque abbia cominciato, continuo ad uccidere perché non so fare altro… se non lagnarmene.”
Udirono un lamento nella nebbia, alla loro sinistra. Deviarono da quella parte, in silenzio.
Era Pirgin, in un lago di sangue, gli occhi rovesciati, il ventre squarciato. L’armatura era praticamente sbriciolata.
“Wotan! Sta morendo!” Wulf aveva un talento particolare per notare l’ovvio.
“Già. E come un cane.” Caishor si inginocchiò. Posò la punta della misericordia sul petto di Pirgin. La affondò.
Le membra del compagno si contrassero appena, poi si rilassarono. “Addio, amico”
Sfilò la misericordia, la pulì e la ripose.
Lui, Caishor “otto dita”, vincitore di mille battaglie, sempre il primo a scendere in campo e l’ultimo ad uscirne, prode combattente, da anni cercava il coraggio di darsi la pace, magari ripetendo un gesto così semplice su se stesso, e non lo trovava.

2 thoughts on “Caishor”

  1. Bello.

    Si riesce ad immaginare molto bene l’ambientazione senza bisogno di troppe descrizioni.

    Un po tenebroso come te…

    Cmq la mia preferita “Il fantasma del palcoscenico”.

    Complimenti.

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…a lungo andare produce…