Io

Era stato trasferito da poco, e stava ancora prendendo confidenza con i suoi “amici”. Preferiva questa parola ad “internati”, il nome con cui gli altri medici e gli infermieri chiamavano gli ospiti di quel manicomio criminale.
“Amici” riusciva a non portargli alla mente gli atti di cui essi erano stati colpevoli: assassinare i genitori per il colore del loro vestito, mutilazione di vittime innocenti e di sé stessi senza altro motivo che il gusto di vedere sprizzare il sangue… e questi non erano che gli stomaci delicati.
Smise di leggere le cartelle cliniche, e si alzò dalla scrivania, deciso a conoscere più a fondo quel soggetto la cui cartella lo aveva tanto incuriosito: una ragazza poco più che maggiorenne che, armata di un coltello da cucina, aveva sorpreso l’intera famiglia -padre, madre e un fratello maggiore- nel sonno e l’aveva freddamente eliminata. I vicini avevano chiamato la polizia allarmati dalle urla di lei: i familiari erano probabilmente passati dal sonno alla morte senza accorgersene.
I poliziotti l’avevano trovata ancora in camicia da notte, piangente e insanguinata. Era seduta tra i cadaveri dei suoi e dei gatti che teneva in casa.
Secondo le deposizioni degli agenti, continuava a ripetere incessantemente una sola parola: “Io”.
Aveva continuato per più di tre giorni e tre notti, prima di cedere, stremata.
Era trascorso quasi un anno dal giorno della strage, e la ragazza non aveva ancora fornito una qualsiasi giustificazione per il suo gesto, nonostante numerosi colloqui con la psichiatra precedente. Si diceva anzi che il caso della ragazza fosse il motivo per cui questi aveva rimandato la data del pensionamento, caricandosi di sempre di maggior lavoro fino a crollare stroncato da un infarto la settimana precedente.
Uscì.
-Stanza 744? – chiese al secondino di guardia alla sua porta.
-E’ nell’ala femminile.- rispose questo, stupito che un medico così in alto nella gerarchia dell’ospedale volesse cominciare a lavorare la sera del secondo giorno di permanenza.
-Lo so. Voglio che lei mi ci accompagni: ancora non mi so orientare, in questo labirinto.- ribatté, seccato sia per la lentezza cerebrale della guardia sia per l’abitudine del direttore di far piantonare le porte degli studi dei medici, come se anch’essi fossero tanto pericolosi da dover essere sorvegliati. Era una misura di sicurezza in caso di rivolte, naturalmente. Seccava però ugualmente tutti i medici in egual misura.
-Sissignore.-
Entrarono nel dedalo dei corridoi, scendendo due piani ed attraversando il corridoio prefabbricato che univa le due ali dell’edificio.
Si trovarono di fronte un’infermiera dall’aria tanto di efficenza quanto di irascibilità, ma che con loro si rivelò uno zuccherino.
Li accompagnò attraverso un nuovo dedalo, continuando a conversare amabilmente ma in maniera incessante.
” Strano, con il mestiere che fa. Deve essere una specie di reazione alle durezze che vede ogni giorno.”
Finalmente l’infermiera batté la fede sulle sbarre di una cella avvisando l’occupante che erano arrivate visite. La ragazza, distesa sulla branda, non diede segno di aver inteso.
Da dove si trovavano loro, l’armadietto -in dotazione ad ogni cella che ospitasse un soggetto abbastanza calmo- impediva di vedere la testa della paziente.
-Alessandra, ci senti?- chiese la donna. Ancora non ottenne risposta.
Lo psichiatra intervenne:
-Si sarà addormentata. Lo sapete meglio di me che cerca di stare sveglia il più possibile, poi crolla. Ha paura di dormire, no?-
-La vuole sveglia?- chiese il piantone, dopo una rapida stretta di spalle.
-Si, ma posso aspettare che si svegli da sola. Più dorme, meglio è. Se ogni volta riesce a fregarvi facendo finta di ingoiare i sonniferi, quando dorme non la svegliate!-
Nessuno dei due raccolse la frecciata.
-La riaccompagno al suo ufficio, dottore?-
-No, chiudetemi nella stanza con lei. Voglio esserci appena si sveglia.-
-Non ha paura che la attacchi?-
-Secondo la cartella, non ha più dato segni di violenza. Non corro nessun pericolo.-
-D’accordo, allora.-
Aprirono la porta della cella cercando di fare meno rumore possibile.
Si sedette sulla sedia vicina alla branda, e ordinò che la cella fosse richiusa. Le guardie se ne andarono.
Adesso poteva vedere anche il volto della ragazza.
Stava davvero dormendo, e della grossa. Non russava, ma il respiro era molto affannoso. Il pollice saldamente stretto tra le labbra non aiutava certo la respirazione.
” Non è che sia una bellezza travolgente”.
Nessuna lo sarebbe stata, con i mezzi che concedeva la vita di cella. Niente trucco, vestiti orrendi ed un taglio di capelli da far paura. Però, su lei non stava male. Anzi, i capelli biondi, tagliati cortissimi secondo le consuetudini dell’ospedale, erano una pennellata d’oro nel rossore del tramonto invernale.
” Come mi è venuta, questa? ” si chiese il medico.
Tolse da una tasca del camice un paperback nuovissimo, comprato proprio per una occasione simile e si mise a leggere alla luce sempre più scarsa che filtrava dalla finestra.

 

——-

-E tu chi sei?-
La voce lo fece sussultare. Si era addormentato, evidentemente: il romanzo era ai suoi piedi, spiegazzato.
“Non si sono ricordati di me”. L’avevano lasciato a dormire nella stanza della paziente. Anche se questa non era pericolosa, non era certo una nota a favore della affidabilità del personale. Per quanto aveva dormito? Il cielo era ancora scuro. Poteva essere qualsiasi ora tra le nove di sera e le sette del mattino. Si maledì per l’abitudine di non portare l’orologio.
La ragazza, appena visibile alla luce della luna, continuava a fissarlo.
-Allora, chi sei?-
Decise di adottare la tattica standard con i malati: la simpatia.
-Dottor Alberto Nencini, psichiatra,- anche la sincerità faceva parte della tattica – ma puoi chiamarmi Alberto, o anche Al.- e sfoderò un sorriso degno di essere fotografato come vincitore del premio Giovialità e Cortesia.
-Alessandra, anche se già lo sai. Evita di slogarti la faccia: so che hai paura. Devi sapere cosa ho fatto.-
Lui smise di sorridere.
-Si, ho paura. Ma non di te, o di ciò che hai fatto, ma del perché tu l’abbia fatto. Sai che tutte le analisi dopo il processo dimostrano che sei perfettamente normale, ed escludono la possibilità del raptus. Te la senti di spiegarmi che cosa ti ha spinto a spegnere tre vite senza alcun motivo apparente?-
L’espressione di lei gli fece capire che quella domanda le era stata rivolta chissà quante altre volte.
-Cinque vite. Ho ammazzato anche Snoopy e Minnie, i miei gatti. Comunque, il motivo ce l’avevo, e l’ho anche detto al dottore. Solo, non ci voleva credere. Diceva che il mio era un “inconscio rifiuto di responsabilità”, o qualcosa del genere.-
-Parlane anche con me. Sono sicuro che non avrò difficolta a crederti. Vedi, so cosa continuavi a ripetere nei primi giorni, e so a cosa ti riferivi.-
La ragazza spalancò gli occhi, colta di sorpresa. Luccicarono in essi altrettanti riflessi della luna.
-Davvero conosci Io?-
-Può darsi. Prima raccontami come sono andate le cose per te. Vedrò se è stata veramente colpa sua.-
-Mi farai uscire di qui? No, non potresti farlo. Sono una pluriomicida, e non potresti scagionarmi con la storia di Io. Prenderebbero per pazzo anche te.-
-Non so. Potrei dichiararti guarita, se potessi essere sicuro che lui non ti costringesse di nuovo a far del male. Senti, prima cominci a raccontare, prima potrò decidere. Perché non cominci dal principio? Ad esempio, quand’è che lo hai visto per la prima volta?-
Aveva cercato di essere il più delicato possibile, ma non ci era riuscito. Era troppo curioso.
La ragazza esitò a lungo, facendo vagare lo sguardo per tutta la stanza prima di cominciare a parlare.
-Okay. E’ stato una settimana prima che mi… fregasse. Era un sabato sera, ed ero appena tornata a casa. Non era tardi, poiché la sera dopo avrei avuto una festa, e volevo guadagnare qualche ora di sonno. I miei erano già a letto, ed entrai senza far rumore. Mi infilai in una camicia da notte ed entrai sotto le coperte. Mi addormentai subito, ma dormii poco. Qualcosa mi svegliò bruscamente. Mi trovai a sedere sul letto senza ancora aver ripreso del tutto conoscenza. Ero ancora un po’ annebbiata, e credevo di stare ancora sognando. Poi lo sentii. Lo sentii respirare, affannosamente. Fino ad allora avevo sentito solo mio fratello…dormivamo nella stessa stanza…, mentre ora sentivo due respiri, uno dei quali raschiante. Ero paralizzata, non sapevo se mettermi ad urlare o alzarmi ad accendere la luce. Non so se lo hai mai provato, ma io penso che il respiro di uno sconosciuto nell’oscurità sia una delle cose più inquietanti di questo mondo. E in più sentivo che mi era ostile! Capisci cosa provavo?-
Il medico annuì e Alessandra riprese.
-La luce si accese da sola, lentamente, come una candela che torni alla massima luminosità dopo essersi quasi spenta. Chiusi gli occhi, neanche io so perché. Quando trovai il coraggio di riaprirli e mi fui riabituata alla luce, era lì. Come fosse entrato o da dove venisse non l’ho mai saputo. Stava in piedi sulla scrivania di fronte al mio letto, e mi guardava.-
-Perché non me lo descrivi?- la interruppe il medico.
-Lo sai come è fatto, no?-
-Facciamo finta di no. Dai.-
-Piccolo, forse sessanta centimetri, ma senza le proporzioni del nano. Capelli lunghissimi, molto peloso, ma senza barba o baffi. Completamente nudo. Gli occhi da vecchio, lucidi, ma la faccia da bambino. Però non era un bambino: aveva un enorme…- fece un sorriso tra l’imbarazzo e il divertito -… organo sessuale. Basta così o devo scendere ancora più nei particolari?-
-Bene così. Continua a raccontare, per piacere.-
-Mi sorrise, e fu allora che cominciai ad urlare. Ero rimasta a fissarlo, senza fiatare, metà curiosa e metà impietrita per una decina di secondi, ma quando mi mostrò i denti credetti di impazzire. Denti, ho detto? Erano come migliaia di spilli, fittissimi, argentei e lucidi di saliva. Orribile. Beh, appena cominciai ad urlare la luce si spense. Ero di nuovo intontita, e di nuovo sdraiata sul letto. Avevo avuto un incubo; così dissi tra me. Ma non feci in tempo a riprendere fiato, che le luci si riaccesero. Di nuovo seduta sul letto, di nuovo lui di fronte… e capii che era lui che mi aveva illuso di aver sognato. Non so come feci a capirlo, e non so neanche come feci a non rimanerci secca. Svenni, e di quella notte è tutto ciò che ricordo.-
Alessandra lo guardò con una espressione strana, impossibile a decifrare.
Ecco cosa aveva quella ragazza: fascino. Non nel senso più comune del termine, ma un tipo di fascino tra quello della potenza domata della pantera in gabbia, dell’esuberanza legata, e quello di una porta chiusa, di un mistero da svelare.
Era strana. Non diceva una parola più del necessario, non si era mossa che di poco da quando lui si era svegliato. Era lì, stesa su quel letto, con il camice dell’ospedale, praticamente immobile. Morta. Ecco cosa. Sembrava che qualcosa le avesse portata via la vita, e la stesse teleguidando, mentre lei era nascosta chissà dove.
-Ti prego, continua.- si sentì dire -Quando lo rivedesti?-
-La sera dopo. Sembra incredibile, ma avevo rimosso dalla mia mente tutto. Penso che ciò che la mente non può accettare, lo cancelli. Deve essere un modo di difendersi dalla pazzia, vero?-
L’altro annuì -Uh, uh.-
-Non feci in tempo ad addormentarmi, che mi riapparve. Non svenni. Non provavo neanche più paura. Ero annichilita: accettavo tutto come scontato, senza capire. Era come se non fossi più lì. Beh, smise di sorridere e disse, con una voce che non saprei descrivere neanche lontanamente, tanto era estranea a ciò che una persona sana di mente possa immaginare: “Male. Ho bisogno che tu tema.”. Di colpo, capii. Traeva sostentamento dalla mia paura! Questa volta fu chiaro: riusciva a trasmettermi i suoi pensieri. Ma perché aveva scelto me? Perché hai potenza mentale. No! Non volevo intrusioni. Troppo tardi, bambina, ormai ti ho e non ti mollo: diventerai mia serva. Mai, non voglio, non voglio, non voglio, non voglio…. Mi lasciò. Era come se fossi uscita da sott’acqua. Gioii. Ma per poco. Tutte le luci si spensero nuovamente, e credo di avere urlato. Attesi a lungo, timorosa, ma non accadde. Avevo vinto una battaglia? Mi alzai per riaccendere la luce, e vidi ciò che Io (era questo il suo nome, avevo saputo in una frazione di secondo di totale quanto orrida compenetrazione mentale) mi aveva preparato: Riccardo… mio fratello, steso sul suo letto, con gli occhi sbarrati. Era morto, e non c’era molto sangue, tranne che per due minuscoli fori sul davanti del suo collo. Due fori, il morso del gigantesco ragno che uscì da sotto il letto di mio fratello, rovesciandolo e correndo verso di me su zampe spesse come manici di scopa. L’istante prima che la mia sanità mentale lasciasse il posto al gomitolo contorto della follia, tutto svanì. Rividi l’atroce sorriso di Io di fronte a me, volsi la testa verso mio fratello che nel suo letto dormiva beatamente (o almeno era ciò che Io mi mostrava), e crollai, uscendo, almeno per quella notte, dal regno di Io.-
-Tuo fratello non si è mai accorto di niente?-
-Si, lo seppi proprio la mattina dopo. Non so come feci a dare a quelle giornate una parvenza di normalità, ma ci riuscii. Stavamo facendo colazione, quando lui mi chiese: “Ale, come mai sono due notti che hai incubi? Hai visto qualche altro splatter, per caso? Io ti vedo lì che mugoli e ti rigiri, ma non ho il coraggio di svegliarti.”. Che dovevo fare? Dire tutto ed essere presa per matta dai miei, oppure fare finta di niente? In quello che penso sia stato il secondo più lungo della mia vita presi la mia decisione, e risposi semplicemente: “La prossima volta svegliami, ti prego.”.
-Ce la fece?-
-No. La mattina dopo che Io mi aveva rifilato un’altra dose di terrore (questa volta era una nube di pipistrelli vampiro che aveva invaso la casa) Riccardo disse che nel sonno lo avevo anche graffiato, ma che non era riuscito a svegliarmi in nessun modo. Capii che dovevo combattere Io da sola, e lo feci. Non mi chieda come, mi procurai un po’ di LSD. Mi avevano detto che cancella ogni paura e inibizione, e pensavo che se Io non avesse più trovato in me ciò che voleva mi avrebbe lasciato in pace. Quel pomeriggio non voleva più passare. Ero agitatissima: avevo sia il terrore che i miei scoprissero in qualche modo che stavo per drogarmi, sia che il mio nemico riuscisse ad eludere la pallida difesa dell’acido. Lo presi in bagno, pochi minuti prima di andare a letto. Funzionò. Oh, Io superò se stesso nella girandola di orrori che mi aveva preparato, ma io non temevo nulla. Durante la notte sono stata stuprata da esseri tanto orribili da non poter essere descritti; credo di essermi lasciata divorare una decina di volte, ognuna da un animale più schifoso e orrendo; credo anche di essere stata oggetto di ogni variante di vivisezione umana concepibile; ma sono sicura di una cosa: Io ci provò tutta la notte, e non ci riuscì. Ero giunta a un compromesso con me stessa: se per evitare di morire di terrore nel sonno (ero certa che prima o poi Io sarebbe giunto a quello) dovevo assumere ogni sera un po’ d’acido, beh, sarei diventata una tossicodipendente. Io ci provò per altre due notti, ma non approdò a niente. Ebbe la sua rivincita la sera di sabato, quella in cui feci fuori i miei. Appena sdraiata sul letto, fui invasa dal torpore. Lui mi apparve subito. Li vedevo sovrapposti, lui e mio fratello che ancora si indaffarava per la stanza preparandosi ad un buon sonno. Non sarebbe stato tanto buono. Io mi parlò per l’ultima volta: “Anche oggi ti sei drogata, eh? Peggio per te. Voglio la tua paura. Ne ho fame, e tu me la neghi? Neghi un po’ di terrore a Io, che E’ il terrore, se ne nutre e ne e’ il signore? Beh, mi prenderò tutto il tuo dolore. Fa quasi lo stesso. Prenderò tutto quello che mi potrai dare. Poi mi cercherò qualcun altro. Ma adesso dormi. Tornerò tra qualche ora. Quando PAPA’, MAMMA E RICCARDO DORMIRANNO. Contenta, amore?” E ghignò, sbavando come se stesse già pregustando ciò che avrebbe assaporato. Urlai tra me e me, ma ugualmente il sonno mi avvolse. Non potevo fare niente per combattere quel torpore pesante come piombo che Io mi aveva mandato.

Mi svegliai già in piedi, al buio. Sulla mia spalla gravava qualcosa. Riconobbi quel qualcosa come Io. Tentai di scrollarlo via, ma non ce la feci. Rinunciai subito. Mi accorsi di avere qualcosa in mano. Non provavo più niente, ma sapevo che l’effetto dell’LSD doveva essere ormai al termine. Dov’ero? In casa, ne sentivo l’odore familiare, ma non sapevo in quale stanza. Dalla strada i fari di una macchina di passaggio filtrati dalla serranda illuminarono per una frazione di secondo la stanza: il salotto. Un baluginio fece riconoscere prima agli occhi che alle mie mani l’oggetto che stringevo nella destra indolenzita: un grosso coltello da cucina grondante di sangue. Ma di chi? Non pensavo di essere ferita. In un lampo di orrore (e sentii Io agitarsi contento sulla mia spalla) capii. Corsi verso l’interruttore, ed accesi la luce. Urlai ancora più forte, di dolore, quando vidi ciò che stava sui divani: papà, mamma e Riccardo. Li avevo uccisi e portati lì. Io aveva fatto in modo che li vedessi tutti contemporaneamente, per avere il mio dolore tutto in un boccone.-
La ragazza terminò la frase senza battere ciglio.
Il medico la fissò cercando di scoprire un qualche segno di dolore. Cercò inutilmente. Alessandra si accorse dell’indagine e riprese:
-No, non mi dispiace più. Non provo più dolore per niente, ormai. Io, seduto sulla mia spalla, si nutrì di esso a sazietà. Credo abbia preso davvero tutto ciò che poteva nei tre giorni seguenti, visibile solo a me, ridendo, e poi si sia trovato qualcun altro. La vostra Alessandra, invece, signore e signori, finirà i suoi tristi giorni in un manicomio criminale. Fine.-
Prese fiato per un istante, quindi fissando l’ospite chiese:
-A te invece, deve essere andata meglio. Come hai fatto a liberartene?-
L’uomo esitò. Poi si fece coraggio.
-Scusami per la bugia. Non l’ho mai conosciuto. Ho finto il contrario solo per poter ascoltare la tua storia.-
L’espressione di Alessandra passò dalla curiosità alla rabbia, quindi alla rassegnazione.
-Già. Che stupida. Dovevo aspettarmelo, da un medico.-
Ci furono lunghi istanti di studio reciproco. Fu il medico a rompere il silenzio:
-Non tutto il male vien per nuocere: vedrò quello che posso fare per te. Se riuscirò a convincermi che tutto quello che mi hai raccontato è vero e che non corri il rischi di ricadute, è possibile che tu sia fuori di qui entro l’anno.-
La ragazza si mostrò disorientata, poi capì.
-Ti ringrazio. Cerca di convincerti, ti prego, perché è la verità.- Evidentemente, non ci sperava troppo.
L’altro sorrise:-Farò il possibile. E farò anche un bel richiamo scritto alle guardie che non sono venute a controllare come andava.-
Aveva infatti cominciato ad albeggiare, quindi aveva passato l’intera notte nella cella senza che nessuno se ne fosse accorto o ricordato. Va bene, l’aveva chiesto lui, ma, cacchio, almeno un controllo lo potevano fare!
-Beh, non ti ho strangolato, né ti ho aperto la gola con le unghie, no?- disse lei con un sorriso.
-Dopo quello che mi hai raccontato stanotte, penso che lo farò da solo.-
Risero insieme. Quindi lui chiamò a gran voce qualcuno che aprisse la cella. Si salutarono con un sorriso. Qualche secondo dopo, il sorriso era sparito, e alla guardia che, scusandosi, gli chiedeva come era andata, rispondeva:
-Bah, l’importante è assecondarli.-

 

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“…anche il nome che la paziente dà all’oggetto delle sue fantasie è, come sosteneva il mio illustre predecessore, un inconscio tentativo di rifiuto delle proprie responsabilità. Si consiglia pertanto di prolungare la detenzione della suddetta fino a che non verrà riscontrato, nel corso delle visite periodiche, un sicuro miglioramento. Personalmente, dubito di tale possibilità.

Rispettosamente,

 

Dott. Alberto Nencini “

Alzò le dita dai tasti della macchina per scrivere, e si voltò verso destra.
-Va bene così?-
L’essere appollaiato sulla sua spalla passò una lunga lingua nera sulla fittissima dentatura argentea e annuì.

…a lungo andare produce…